Antoine Fuqua
Vien da chiedersi se non ci sia una maledizione su Re Artù: tanto spesso la sua epopea è stata trasposta sul grande schermo in film sbiaditi, da “Camelot” di Joshua Logan a “Il primo cavaliere” di Jerry Zucker (almeno il vecchio “I Cavalieri della Tavola Rotonda” di Richard Thorpe era piacevole per l’anacronismo sfacciato dei suoi castelli e costumi). Luminosa eccezione - accanto, si capisce, a Robert Bresson - “Excalibur” di John Boorman. E’ bello poter annotare che “King Arthur” di Antoine Fuqua, prodotto dall’intelligente Jerry Bruckheimer, si situa nell’esigua frazione valida (sarebbe anche bello, fra parentesi, che s’intitolasse “Re Artù”, visto che nel film i personaggi si chiamano giustamente Artù, Lancillotto, Ginevra, Galvano, e non Arthur, Lancelot, Guinevere, Gawain; ma sarebbe pretendere troppo dalla stupidità dei distributori italiani).
L’appassionante “King Arthur” non è un capolavoro, beninteso, non è “Excalibur”; ma non è neppure il divertente e dimenticabile “Troy”. Una buona sceneggiatura di David Franzoni (che ha scritto “Il gladiatore”, nonché “Amistad” di Spielberg) riporta i materiali bruti della saga arturiana a un’ipotesi realistica e materialistica - vedi l’originale reinvenzione dell’episodio di Artù bambino e della spada Excalibur - situandoli negli ultimi giorni della Britannia romana, invasa dai Sassoni (c’è la convincente sensazione della caduta di un mondo, nel film). Non è la storia, s’intende, ma una storia-fantasy, non libera come “Il gladiatore” ma quasi. Per inciso, solo qualche sguardo di desiderio fra Lancillotto e Ginevra sostituisce il rapporto, “...il disiato riso / esser baciato da cotanto amante”; il film mostra l’evidente tentazione di avventurarsi su questo terreno (anche per ragioni logiche, visto che parla della nascita della leggenda) ma non lo fa; del resto, se non sul piano amoroso, “King Arthur” è già imprevedibilmente audace per gli attuali limiti americani.
Infatti, quel che piace e più colpisce di questo film è il suo spirito barbarico. Non intendo solo un “barbarico” grafico, di costumi e di look - nel gusto postmoderno non sarebbe una novità - ma un’autentica scintilla del cinema di John Milius trasportata (certo, impoverita) in un blockbuster. E’ chiaro che “Conan il barbaro” di Milius è stato tenuto presente dai realizzatori (però “King Arthur” è anche uno dei primi film in cui si manifesta l’influenza visuale de “Il Signore degli Anelli”). Felice figura “politically incorrect” questa Ginevra selvaggia e guerriera, che si precipita all’assalto seminuda, il viso decorato di tatuaggi dipinti, per sgozzare i Sassoni! E qui il film ci regala un’immagine bellissima e feroce: il suo viso tatuato insanguinato di sangue nemico nell’esaltazione della battaglia - una di quelle immagini che travalicano il film cui appartengono per restare nella memoria cinematografica.
Uno spirito barbarico, dico, e sorprendentemente anticristiano. Vediamo all’inizio una brutale parodia della preghiera (salvo Artù, i cavalieri sono pagani); il vescovo cristiano (il nostro Ivano Marescotti!) è un viscido “villain”; quando Artù e i suoi cavalieri scoprono una specie di prigione dell’Inquisizione ante litteram uccidono subito un frate e murano vivi gli altri; e il film termina, altro che conversioni, con un matrimonio druidico fra i menhir.
C’è un vero gusto narrativo nella regia enfatica del sempre interessante Antoine Fuqua; una sanguigna voracità della macchina da presa che vola in riprese aeree su cime innevate o si solleva in gru su un campo di battaglia costellato di fuochi e di cadaveri; un’avidità d’immagini che si spinge fin sotto la superficie del ghiaccio per vederlo “da sotto” che si crepa, nella battaglia sul lago ghiacciato, piccolo omaggio a Ejzenstejn. E più volte vediamo una singola lacrima scendere sul viso dei personaggi: un “topos” visivo del cinema orientale (che Fuqua ben conosce), il cui pathos finalmente ritorna da noi.
(Il Nuovo FVG)
lunedì 7 gennaio 2008
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