lunedì 7 gennaio 2008

Collateral

Michael Mann

Noi formiche. C’è una dialettica della visione nello splendido “Collateral” di Michael Mann. Da un lato, lo sguardo dall’alto: le riprese dall’elicottero, le inquadrature a piombo (cioè perpendicolari), ma anche negli sfondi d’inquadratura il rutilante fiume di luci d’auto, flusso continuo nella notte. Dall’altro, le riprese da vicino a seguire i personaggi: strette, letteralmente tattili nei primissimi piani: ci sembra di toccare i difetti della pelle di Jamie Foxx, i peli della barba di Tom Cruise. Le tracce luminose delle creature-formiche viste da lontano e lo sguardo ravvicinato sulle stesse creature che esibiscono la loro incerta umanità.
Questa bipartizione dello sguardo coincide a perfezione con l’opposizione esistenziale fra i due personaggi, il tassista Foxx e il killer a pagamento Cruise che si fa scarrozzare da un “target” all’altro, con la segreta intenzione di uccidere il tassista alla fine e accollargli il conto dei cadaveri, come ha già fatto altrove. Da un lato l’astrattezza “sociopatica” (il termine lo provvede il dialogo) di Cruise, che considera gli uomini come puntini (formiche) e filosofeggia di statistiche e di stragi africane per dimostrare che un cadavere in più o in meno nella metropoli non fa differenza. L’esempio del morto nel metrò ignorato da tutti entra nel suo discorso come allegoria, e diventerà poi il sigillo morale visivo del film. Dall’altro lato l’onesta limitatezza di Foxx, il cui progetto imprenditoriale è un autoinganno (lui inganna la madre in ospedale, se stesso, tutti). Un uomo che si è come ritirato nel piccolo rifugio del suo taxi. E’ interessante che la sua vera bravura stia nelle tabelle temporali dei percorsi più vantaggiosi: indice certamente di perizia e professionalità, ma anche di isolamento e nevrosi.
Michael Mann però è regista dialettico, regista dello scambio, come William Friedkin. Non per niente ha girato due volte il suo grande film sul “doppio”, una come film tv e poi una per il grande schermo (“Heat”). I suoi due sguardi si rovesciano l’uno nell’altro; il caldo aspetto “domestico” del taxi di Foxx ci dice che in questo film le luci lontane del traffico non sono astrazione, simbolo di gelo e lontananza della metropoli: no, all’interno di quel flusso di luce indoviniamo il caldo abitacolo delle auto e delle cabine di guida, lo stesso calore del taxi di Foxx, cellula di questo ammasso di madrepore luminose. Umanesimo di Mann, che in ogni situazione vede l’uomo!
Per cui non si trova nel film alcun discorso di alienazione che non derivi da una scelta personale, da un limite dell’individuo - e qui, accanto all’umanesimo, sta l’americanismo di Mann. “Collateral” non è sociologico. La visita di Foxx al locale “latino” è, come ambientazione, giocata tutta sul fuori fuoco; nessuna vera descrizione d’ambiente, per centrare tutto sulla soggettività e l’emozione. Parimenti, il film non ha niente di “procedural”: il poliziotto che credeva a Foxx finisce improvvisamente sparato, uscita di scena subitanea e imprevista.
Similmente c’è uno scambio, al di sotto dell’orrore e del ricatto mortale, fra questi due tipi umani, che imparano l’uno dall’altro, sempre nella logica del “doppio”. Però solo in Foxx la lezione provoca un salto dialettico: uscire dal suo bozzolo - agire - significa anche imparare a sparare a bruciapelo. In due parole, possiamo dire che il tassista cresce perché impara a diventare anche un po’ assassino, ma l’assassino non cresce perché non impara nulla dal tassista (il personaggio di Cruise imita l’umanità come una scimmia; non basta).
Questo fluido racconto (scritto da Stuart Beattie) si allarga a tratti in magnifiche “anse”, come gli episodi della prima cliente o del jazzista. Esse però non restano a sé ma vengono recuperate dal racconto principale: Michael Mann è sì modernità del cinema, ma non è Nouvelle Vague. Semmai, per questo interesse per espansioni secondarie fortemente inserite nel racconto principale, si può ben dire hawksiano.

(Il Nuovo FVG)

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