Bobby e Peter Farrelly
Storia di un bicchiere... La piattezza dei titoli di testa di “Io, me & Irene”, il nuovo film dei fratelli Farrelly col grande Jim Carrey, ci mette subito in allarme. Poi arriva la voce esterna narrante - che al cinema 3 volte su 4 è solo un modo “cheap” e sciatto di trovare scorciatoie per lo sviluppo narrativo - e i sospetti aumentano. Ohi ohi. Ma poi Jim Carrey che si è appena sposato porta a casa la moglie e s’invischia in un folle litigio coll’autista del taxi che è un nano negro attaccabrighe, che lo picchia con uno strumento da arti marziali (poi la moglie dà alla luce tre gemelli negri)... I fratelli Farrelly non ci hanno tradito.
Tutto questo ci dice qualcosa sul cinema di Peter e Bobby Farrelly. Il bicchiere dei Farrelly è sempre mezzo pieno e mezzo vuoto. I due - anche sceneggiatori e produttori - hanno la forza delle invenzioni oltraggiose che spargono a piene mani con felicissima sfacciataggine; hanno la debolezza di un certo impaccio sul piano narrativo, con vistose cadute di ritmo. Ecco perché dei loro film uno tende piuttosto a ricordare alcune scene. Anche in quanto sul piano formale i due fratelli sono molto tradizionali (non sono i fratelli Coen né i fratelli Wachowski!), il loro cinema funziona perfettamente quando lavora sull’accumulo; è per questo che “Scemo & + scemo”, una girandola di scherzi spudorati senza un attimo di tregua, è più bello di “Tutti pazzi per Mary” e del presente “Io, me & Irene” (mi spiace di non avere ancora visto “Kingpin”). Non voglio dire che “Io, me & Irene” sia brutto; è piacevole, è godibile, e contiene dei grandi momenti, per non parlare dell’ottima interpretazione di Carrey. La storia di un poliziotto troppo buono, per cui la sua personalità si sdoppia ed emerge un sé cattivo che prende il sopravvento nei momenti di frustrazione (il che è reso con cambiamenti d’espressione tenuti al minimo), offre alla mimica di Jim Carrey - evidentemente debitrice della grande lezione di Jerry Lewis - un magnifico campo d’azione. Tuttavia il film non riesce a liberarsi da un che di faticoso.
Questo per il bicchiere mezzo vuoto; adesso, per fortuna, possiamo passare ad occuparci della parte mezzo piena. E se vi pare un modo schizofrenico di far critica cinematografica, rispondo con tre argomenti: a) sì, lo è, e allora? - b) comunque, trattandosi di un film su uno schizoide dalla personalità dissociata, se non altro siamo in tema - c) temo che per il cinema dei fratelli Farrelly sia l’unico modo possibile.
Dunque i fratelli Farrelly non saranno campioni di ritmo, ma possiedono un’inventiva follemente divertente, uno humour brillante e crudele, anche perché sono assolutamente impermeabili al “politically correct”. Anzi, adorano prenderlo a bersaglio. Scherzano allegramente su quella specie di vacche sacre della cultura americana che sono le minoranze (l’albino Michael Bowman è un esempio da manuale). Fanno rabbrividire gli animalisti: dopo l’indimenticabile cane di “Tutti pazzi per Mary”, qui troviamo una mucca sulla quale Jim Carrey ci dà la stessa agghiacciante dimostrazione della difficoltà materiale di uccidere che conosciamo da “Il sipario strappato” di Hitchcock. Si dilettano di scatologia: quando Jim Carrey fa i suoi bisogni sul prato del vicino, c’è un raccordo analogico stupefacente (che non vado ad anticipare). Per non dire della quantità di “sexual jokes”: la memorabile gag sul seno materno, il fallo di gomma usato come manganello, e soprattutto le allusioni a certe pratiche sessuali che nei film americani il protagonista non fa mai ma mai, neppure nei film comici, e qui invece.
Come non amare un film che nei titoli di coda (a proposito: è pressantemente consigliato di restare in sala finché non sono finiti) presenta al pubblico, con nome e foto di scena, non già gli interpreti principali ma le comparse, una a una? In conclusione, il bicchiere dei Farrelly sarà pure mezzo pieno e mezzo vuoto - ma lo beviamo con piacere lo stesso.
(Il Nuovo FVG)
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