David R. Ellis
Potremmo chiamarlo il “cinema ai confini della realtà”. Ovvero quei film o telefilm di genere fantastico che si basano su un’idea barocca, grottesca, paradossale, che si può concentrare in un’unica frase. Rubando la parola ai trattatisti barocchi, una “agudeza”. Era appunto la specialità della serie televisiva “Ai confini della realtà” (“Twilight Zone”), un caposaldo della tv di una volta ritrasmesso ancor oggi. Un esempio famoso: un buonuomo amante della lettura (Burgess Meredith) è tormentato da una moglie arpia che odia i libri e gli impedisce di leggere. Scoppia la bomba atomica e il nostro eroe è per caso l’unico sopravvissuto. Felicissimo, si prepara le pile di libri da leggere in beata solitudine anno dopo anno - e in quel momento gli cascano gli occhiali e si rompono.
Evidentemente questo tipo di invenzione narrativa - un po’ più su dell’aneddoto/barzelletta, un po’ più giù della peripezia romanzesca - pone un problema agli sceneggiatori: ha bisogno di un’attenta elaborazione per trasferirsi nella fiction cine/televisiva. Il paradosso vuol essere concentrato in un attimo, il film richiede una dimensione distesa. Metterli assieme è questione di impalpabile abilità, il rischio essendo alternativamente che l’“agudeza” si annacqui nella trama, finendo per apparire un’alzata d’ingegno gratuita, o all’inverso che la trama risulti solo un’arzigogolata costruzione per arrivare a quel punto. Ne troviamo buoni esempi nel cinema di M. Night Shyamalan, in senso positivo (“The Sixth Sense - Il sesto senso”) o negativo (“Unbreakable”).
“Cinema ai confini della realtà” è anche “Final destination”, successo del 2000 di James Wong, di cui ora esce il sequel “Final destination 2”, ben diretto da David R. Ellis, ex stuntman e poi regista della seconda unità in vari film. Basta vedere il concetto base: i protagonisti sfuggono a un incidente mortale (aereo nel primo film, d’auto nel secondo) e la Morte, defraudata, si mette sulle loro tracce per ucciderli attraverso crudelissimi incidenti.
Il secondo episodio è più convincente del primo, uno dei rari esempi di sequel superiore all’originale. Non tanto perché apporta un minimo di (delirante) teorizzazione al concetto della Morte come serial killer, ma per ragioni puramente cinematografiche. Se il primo “Final Destination” a onta di alcune buone pagine pareva una commedia horror giovanilistica casualmente realizzata in chiave seria, questo sequel inusualmente breve mostra una miglior caratterizzazione dei personaggi, un ottimo ritmo che sostiene un’impostazione fantasiosa (con una serie di morti deliziosamente orribili), e una feroce coerenza di sviluppo. C’è qualcosa di “sick”, di malsano, in questo film, che mancava nel precedente, e che prende allo stomaco.
Non solo la sequenza iniziale dell’incidente rende ottimamente l’elemento di terrore insito nel traffico, attraverso il gioco delle inquadrature in dettaglio e del sonoro. Seguendo il primo film, “Final Destination 2” mostra assai bene la perversa volontà che sembra celarsi dietro gli incidenti casuali. La morte-per-caso rivela la maligna determinazione del Falciatore. Gli oggetti più comuni sembrano diventare “macchine celibi” omicide attraverso una perversa concatenazione, in un circuito di possibilità negative che il montaggio del film “realizza” esibendolo in modo improvviso e decisamente terrorizzante. Poiché la “trappola” non sempre scatta ma si prolunga in una serie di trappole ulteriori, il film elabora un sadismo della ripetizione e dell’incidente mancato, fino al colpo decisivo.
Una bella dimostrazione di paranoia urbana, che gioca su tutte le nostre paure (degli oggetti, del traffico, degli animali, perfino del dentista!) assumendole e fondendole nella paura definitiva. Perché noi apparteniamo a una civiltà che ha letteralmente rimosso la morte - e come può essa terrorizzarci di più che quando appare nella sua veste più “ingiusta”, improvvisa e casuale?
(Il Nuovo FVG)
martedì 8 gennaio 2008
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