martedì 8 gennaio 2008

Ararat

Atom Egoyan

Riportare alla luce la pagina nascosta e dimenticata del genocidio degli armeni compiuto dai turchi, il primo genocidio del XX secolo: questo è pressoché l’unico merito di “Ararat” di Atom Egoyan. Ma il vero film sul genocidio degli armeni rimane ancora da fare.
Fondamentalmente “Ararat” soffre di mancanza di coraggio. Egoyan (anche sceneggiatore) è di origine armena, sente - giustamente - forte l’argomento, vorrebbe gridarlo. Ora, la forma più semplice e popolare, e più efficace (non l’unica), sarebbe stata l’epica in costume di tipo hollywoodiano: la mimesi storica attraverso la messa in scena. Egoyan si sente evidentemente spinto verso questa soluzione, ma non osa farla propria (nel film una brutta scena di dialogo circa le “emozioni preconfezionate” dà la spiegazione nascosta di tutta la sua operazione di distanziamento). In realtà, non ha il coraggio di fare i conti con le scelte morali della messinscena. Così gira il film epico-mimetico - ma lo attribuisce a un personaggio.
Infatti, attraverso un’operazione di distacco marcatamente intellettualistica, Egoyan ricorre all’espediente del film-nel-film. La tragedia degli armeni che vediamo in “Ararat” è un film, anch’esso ovviamente intitolato “Ararat”, girato da un regista armeno (Charles Aznavour, armeno di origine come molti interpreti); ed è solo una delle linee narrative di “Ararat”, il “racconto primo” essendo una storia complicata (e risibile) fra armeni d’oggi. Le immagini di questo film-nel-film entrano nel racconto sotto varie rubriche: sono il film di cui vediamo scenografie, macchine da presa, “tournage”; valgono come referente nei pseudo-flashback storici; nonché come visualizzazione dei discorsi nel terribile dialogo (iper-didattico, da tv movie italiano) dell’inespressivo David Alpay col doganiere Christopher Plummer.
In realtà il realismo della messa in scena supera il riconoscimento della stessa. Infatti Egoyan amministra alquanto furbescamente l’ambiguità del suo dispositivo narrativo, e quando vuole ne occulta il carattere di artificio: così fa emergere il pathos proprio della ricostruzione storica. Così quando vediamo le peggiori atrocità, come la scena delle ragazze fatte ballare nude dai turchi e bruciate vive, non solo dimentichiamo di assistere a un film-nel-film, com’è ovvio, ma anche trascuriamo di assistere a un film tout court; è l’effetto di una narrazione cinematografica divenuta improvvisamente “trasparente”. Del resto, questo pathos non appartiene solo al cinema ma alla mimesis artistica in genere: pensate a Delacroix, “Il massacro di Schio”.
L’esperimento di Egoyan non è realmente coraggioso, perché è lontano dall’essere la pura modernità che finge. Ricerche ben più avanzate sugli stessi problemi le hanno fatte - senza scomodare i grandissimi del passato - Straub & Huillet, Syberberg, Jarman, Greenaway e quant’altri. Sottolineerei qui proprio il Greenaway del complesso e splendido “The Baby of Mâcon”, che mantiene tutto il pathos pur entro un impianto esplicitamente teatrale. Egoyan avrebbe potuto benissimo rafforzare la sua operazione di distanziazione mettendo in scena in “Ararat” un dramma teatrale anziché un film - ma non l’ha fatto, “et pour cause”.
Tuttavia l’operazione potrebbe anche avere qualche interesse. Non assassina il film, anche se lo storpia. Il problema è un altro. “Ararat” si struttura su una pluralità di livelli narrativi; ebbene, c’è una progressione del degrado man mano che si scende di livello, fino alla stupidità assoluta di Marie-Josée Croze (con la recitazione a metà strada fra naturalismo esasperato e frivolezza autocompiaciuta del peggior Metodo americano) che tampina la madre del suo fratellastro-amante. Qui l’intellettualismo stantio diventa grossolanità da soap opera. Povero Egoyan, tanta fatica per prendere le distanze da una messinscena mimetica sulla linea storica, e senz’accorgersene cadere nella più scontata mimesi telenovelistica sulla linea contemporanea!

(Il Nuovo FVG)

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