martedì 8 gennaio 2008

Il Signore degli Anelli - Le due torri

Peter Jackson

L’inizio del meraviglioso secondo episodio della trilogia tolkieniana di Peter Jackson, “Il Signore degli Anelli - Le due torri”, è un volo dell’occhio della macchina da presa (alleata alla computergrafica) sulle montagne: sopra il visivo risuona il sonoro del combattimento di Gandalf col Balrog; e la m.d.p. entra materialmente all’interno della montagna per assistere alla lotta, e poi segue in tuffo i contendenti nella caduta... Ovvero, la possibilità assoluta del cinema come occhio (una rivendicazione appena un po’ indebolita dalla dichiarazione, che segue, che si trattava di un sogno di Frodo, peraltro narrativamente delegato, con evidenza, a trasmetterci il racconto “oggettivo”). Possibilità assoluta, al pari della parola scritta; e quindi un cinema impegnato “eroicamente” a superarsi. Al che appartiene anche la figura di Gollum, realizzato in digitale sopra il corpo e con la voce di Andy Serkis, che rappresenta un capolavoro di recitazione virtuale (nei dialoghi con se stesso in cui emerge la sua doppia personalità è “creepy” quasi quanto Anthony Perkins in “Psycho”).
La grandiosità dell’inquadratura di Jackson spinge all’estremo, in affascinanti composizioni pittoriche, le potenzialità del grande schermo (l’eleganza della composizione dell’immagine ha qualcosa di orientale, è degna di King Hu). Ma stavolta non è solo bellezza visuale. Il film raggiunge quella potenza del racconto - impalpabile genialità nell’amministrazione dei tempi e dei ritmi, nella dialettica fra l’azione e le figure - che trasforma una narrazione avventurosa in un grande poema epico. Così è indubbiamente superiore al precedente “Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello”, che era una illustrazione tolkieniana di indubbia bellezza grafica, ma un’illustrazione: era un grande palcoscenico sul quale si aggiravano personaggi che non riuscivano a dispiegare appieno il loro pathos quale esiste nel romanzo.
Ora, libero dall’obbligo di dover disporre i pezzi in una laboriosa apertura, Jackson realizza un film più cupo e più drammatico, più nervoso e intenso. Potremmo dire, con metafora non inappropriata, che qui il materiale della trilogia si tempra e perde le sue scorie nel fuoco. Ne guadagna molto anche l’aspetto lirico, qui compresso e quindi valorizzato in pochi lampi (fra cui la pagina stupefacente in cui Arwen, elfo immortale, visualizza l’ipotetica vecchiaia e morte di Aragorn accanto a lei, una grande dolente pagina romantica sulla fragilità dell’uomo davanti al tempo).
Il registro prevalente è però quello epico. Con l’esplosione di solennità veemente della battaglia finale contro la massa indistinta degli orchi Uruk-Hai (un Male assoluto che preme grigio e massiccio), grazie a Jackson il cinema riscopre sullo schermo la selvaggia bellezza di vivere la furia del combattimento, la gioia feroce di veder morire il nemico. Così con questo film Peter Jackson guadagna un posto onorevole nella schiera - a capo della quale troviamo il sommo D.W. Griffith - dei grandi registi cinematografici dell’epos guerresco. A tale proposito non credo sia sbagliato accostare Jackson a un autore geniale purtroppo oggi poco ricordato: John Milius.
Molti hanno visto elementi contemporanei in questa saga. Certo ogni film “in costume” è un film sulla propria epoca quanto e più che su quella - reale o immaginaria - descritta. La contemporaneità de “Le due torri” è però aperta alla nostra soggettività. Il film riproduce adeguatamente lo spirito della trilogia di Tolkien, scritta fra la fine degli anni trenta e l’inizio dei cinquanta, quando a est dell’Inghilterra effettivamente rosseggiano i fuochi di Mordor del nazismo e dello stalinismo. E il concetto alla base della grande opera di Tolkien si potrebbe sintetizzare nelle parole: Mordor esiste. La guerra come tragica necessità a dispetto delle speranza di uomini o elfi di tenersene lontani o neutrali. Questo principio è reso con passione da Jackson; poi ognuno di noi spettatori vedrà nella grande allegoria ciò che gli dice il cuore.

(Il Nuovo FVG)

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