martedì 8 gennaio 2008

Il favoloso mondo di Amélie

Jean-Pierre Jeunet

In un certo senso non è sbagliato dire che dopo “Il favoloso mondo di Amélie” di Jean-Pierre Jeunet il cinema non sarà più lo stesso. Perché questa formula cauta? Perché è un film gustoso, ma non è che sia intrinsecamente così importante. Eppure...
Vediamo di spiegarci. Ispirata da un caso che le è successo, Amélie (Audrey Tautou), cameriera dal cuor d’oro, fa la benefattrice intervenendo sul destino degli altri, instrada le vite altrui su un binario migliore con un’abile attività di manovratrice del caso; ma è troppo timida per farlo per se stessa. Tuttavia, finirà per guadagnare l’amore che merita (col non meno timido Mathieu Kassovitz), e i destini ulteriori di tutti i personaggi, vediamo alla fine, saranno felici, una specie di contagio metafisico.
Un piacevole svolgimento di leggerezza semifiabesca, d’una piccola poesia molto francese, un po’ facile ma gradevole, alla Prévert (credo che l’abbia citato in un’intervista anche il regista). Un sense of humour lieve, belle figurette comiche, interpreti eccellenti, dai due protagonisti fino alle ultime comparse. Quel che importa però è che Jeunet in questa storia fa saltare completamente il tradizionale statuto narrativo “teatrale” della messa in scena e del racconto, in favore di una narrazione assolutamente soggettiva (soggettività del narratore, non della protagonista), e certo non solo con la voce over. L’interventismo del narratore sposta completamente il film fuori dalle convenzioni della riproduzione del reale.
Così la presentazione dei genitori si avvale di didascalie fisiognomiche; vediamo in trasparenza nel corpo di Amélie il cuore che batte, idem la chiave che ha in tasca, come ai raggi X; i quadri di animali in camera commentano le sue vicende col porcello abat-jour, in una fotografia le 4 fototessera si animano e discutono fra loro, una statua le strizza l’occhio; Amélie visualizza un programma tv sulla sua morte di benefattrice solitaria, converte un film russo con Stalin in commento sui suoi problemi, materializza una metafora sciogliendosi in acqua...
Ciò evidentemente è tutt’altro che una novità nel cinema moderno (pure “Ally McBeal” in tv ha le metafore visualizzate), ma in “Amélie” è un autentico programma narrativo. Non ironici strappi alla convenzione (“Tom Jones”) ma lo spostamento su convenzioni diverse. Su forme narrative imparentate col fumetto e il cartoon; così “Amélie” era contenuto in germe, no, molto più che in germe, in “Delicatessen” di Jeunet e Marc Caro (mi scuso di non conoscere il loro “La città perduta”). Ora, tutto questo non se l’è inventato Jeunet. Basta vedere la presentazione delle colleghe al bar (“le piace/non le piace”) per ricordarsi “Mon oncle d’Amérique” di Alain Resnais; in effetti Jeunet popolarizza - trascrive a livello “facile”, popolare e spettacolare - un discorso metafilmico (cioè dove il film allude a se stesso infrangendo le regole “mostrative”) che ha alla base Alain Resnais. Del quale potremmo ricordare anche “Voglio tornare a casa!”, uno splendido film uscito in Italia malamente tagliato e rovinato dal doppiaggio, ove pure Resnais conservava il riferimento al fumetto (ma interno al racconto: era la storia di un disegnatore, il che “giustificava” le sue visioni).
Volendo, pure i giochi del caso e del progetto sono un tema di Resnais, ma in realtà di tutta la cultura francese (da Marivaux a Rohmer); e in “Amélie” semmai portano a un altro nome, Claude Lelouch (un regista bacchettato dalla critica, assolutamente da rivalutare), per la scorrevolezza dei suoi giochi di incastri e incroci: basta pensare a piccoli capolavori come “Ci sono dei giorni... e delle lune” o “Uomini & donne - Istruzioni per l’uso”.
Truffaut, cui il film rende omaggio con una citazione, non l’avrebbe affatto amato: nulla è più lontano dalla nouvelle vague della concezione del cinema che emerge da “Amélie”. Ma è una direzione interessante. Questo è un film che fa bene. Toglie la depressione. Posologia: 1 visione dopo i pasti. Non superare le dosi indicate. Però non tenere fuori dalla portata dei bambini.

(Il Nuovo FVG)

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