lunedì 7 gennaio 2008

Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re

Peter Jackson

Bellezza dell’immagine: “Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re” di Peter Jackson, conclusione della trilogia, è una notevolissima realizzazione. Le sue immagini, con quelle della trilogia tutta, sono destinate a rimanere nell’immaginario collettivo cinematografico. Ha, “Il ritorno del Re”, una vera potenza di concezione visiva, che non risalta soltanto nella memorabile battaglia centrale. Peter Jackson è un pittore dello schermo, che usa la tecnologia e la computergrafica come suo pennello, con assoluta naturalezza.
Tuttavia, quando la esaminiamo al di fuori della sua dimensione grafica/illustrativa - ossia al di fuori del suo creare quadri d’innegabile bellezza formale - c’è nella grande opera di Peter Jackson qualcosa che non convince appieno. Jackson “vede succedere” le cose: specie nel terzo film della trilogia sembra troppo spesso un occhio che registra - col che voglio dire che mantiene un che di esterno. La sua è una messa in scena gigantesca, eppure frenata. Sotto i numerosi barbagli di bellezza traspare una concezione fredda: grande palcoscenico, ma palcoscenico. Illustrazione.
Il punto è “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien - uno dei grandi libri del Novecento - è l’epopea di un genio, laddove Peter Jackson, degnissimo regista senza dubbio, un genio non è. “Il Signore degli Anelli” è un romanzo totalitario: da grande poema leggendario, aspira a restituire una dimensione complessiva dell’epos umano, con la caratteristica propria dell’epica di esprimere al massimo il sentimento umano all’interno dell’azione guerriera (perché il sentimento umano si eleva in primo luogo attraverso la guerra). Attraverso l’azione epica, il romanzo di Tolkien è un maelstrom dei moti del cuore. E questo non viene ri/creato nel film di Jackson con vera potenza.
Può, indubbiamente, venire recuperato in senso vicario dal lettore tolkieniano, che convoglia sull’illustrazione la memoria emozionale della pagina. Ma non è inscritto di per sé nell’immagine cinematografica di Jackson, nel modo che troviamo un’analoga potenza epica nelle immagini di John Ford o Howard Hawks. D’accordo: è sleale citare questi giganti: ma vale solo come esempio. Potremmo anche richiamare Ejzenstejn, in un senso meno subdolo: non per mettere sul piatto della bilancia la sua grandezza, solo per annotare che da Ejzenstejn Jackson non ha appreso l’attesa ansiosa della battaglia, quella preparazione dialettico/sinfonica che rende sublime l’“Aleksandr Nevskij”. Eppure il nome del regista russo entra bene in taglio: giacché proprio ad Ejzenstejn si richiamava la bella versione cartoon de “Il Signore degli Anelli” di Ralph Bakshi (1978), che Jackson non può non conoscere.
Verrebbe da dire che perfino le battaglie (il clou del film), sebbene siano realizzate in maniera eccellente, tuttavia le avrebbero fatte meglio Martin Scorsese o F.F. Coppola, George Lucas o anche Peter Weir; addirittura la battaglia fra l’esercito giapponese e i samurai ribelli de “L’ultimo samurai” è più vibrante. Non dico più spettacolare, non dico neanche più sincera (indiscutibili sono la sincerità e la fedeltà di Peter Jackson): dico più vibrante, ed è mera questione di capacità di far “parlare” i sentimenti sulla tela cinematografica. Ciò ne “Il ritorno del Re” accade solo a tratti (per esempio: la triste andata alla morte, attraverso la città, dei cavalieri di Faramir, inviati in una missione suicida e inutile dal folle Denethor), e complessivamente più no che sì.
Annotazione importante: com’è noto “Il ritorno del Re” che vediamo è, sarebbe troppo dire un tronco, ma certo pesantemente sfrondato rispetto a un “final cut” assai più lungo. Meglio si giudicherà dalla “extended version” che uscirà in DVD. Oggi però è questa versione che abbiamo davanti. Dobbiamo concludere che, con tutti i suoi meriti, Peter Jackson ha mostrato nella trilogia - più nel primo film, meno nel secondo (il migliore) e più di tutti nel terzo - di soffrire di una sorta di freddezza che ha un nome: accademismo.

(Il Nuovo FVG)

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