Clint Eastwood
Classicità è la parola chiave di Clint Eastwood: il quale, partito dalle orme del suo maestro Don Siegel, si è impadronito forse più di chiunque altro della grande lezione di Howard Hawks. Il suo cinema ha l’asciuttezza virile del cinema classico, la sua forza impositiva. Forse la semplicità di Eastwood (capace peraltro di impreviste risonanze lynchane, nel senso di David Lynch, nello splendido “Mezzanotte nel giardino del bene e del male”) rende meno facile al pubblico riconoscerne la personalità rispetto a quelle più “flamboyantes” di uno Scorsese o di un Coppola; ma Eastwood non vale di meno.
Con “Fino a prova contraria” - un’indagine in corsa contro il tempo per salvare un uomo dall’esecuzione - Eastwood ci ha dato il suo “L’ultimo giorno di un condannato a morte”, aggredendo la pena di morte collo stesso vigore di Victor Hugo. Il film non è un pamphlet, pur avendone l’impatto: poiché non usa il fatto come mera illustrazione di una tesi (all’italiana) bensì materializza la presa di posizione nella concretezza carnale-emotiva del racconto. Magnificamente narrato (ha i più bei campi/controcampi degli ultimi anni), il film si struttura su due linee: l’inchiesta/la vitaccia del giornalista Eastwood e la cronaca dell’ultimo giorno del condannato. Instaura psicologicamente due diverse linee di scorrimento temporale: quello rapido, thrilling, “fibrillato” dell’indagine e quello lento, minuzioso, documentaristico, della preparazione dell’esecuzione. E’ una perfetta illustrazione del montaggio alternato alla Griffith.
Anche in ciò ricordando Hawks, Eastwood gode a sottolineare l’elemento comedy entro la vicenda drammatica (impagabili i duetti del protagonista col direttore del suo giornale, una bella interpretazione volutamente caricata di James Woods). Il cuore del film è il poderoso ritratto, insieme distaccato e caloroso, dell’anziano giornalista, un donnaiolo che tradisce la moglie con quelle dei colleghi, nonché un fumatore senza vergogna, ciò che per gli americani è anche peggio. Ci voleva un grande come Clint Eastwood per avere il coraggio - nell’era di quel maccartismo progressista che è il moralismo “politically correct” - di costruire questa figura senza ipocrisie conclusive. Anche alla fine la scena con la bella commessa al negozio di giocattoli provvede a negare qualsiasi ipotesi moralistica: il lupo Eastwood ha perso il pelo ma non il vizio.
Nel film il giornalista dichiara di interessarsi mai al torto o alla ragione ma solo al proprio fiuto. Appartiene cioè a quei personaggi “fulleriani” che compiono eroismi ma rifiutano di teorizzarli in bei discorsi - ne è figura archetipica, nell’opera di Samuel Fuller, il Richard Widmark di “Mano pericolosa”. Anche per questo il protagonista se ne va via da solo, nell’ultima immagine volta le spalle agli spettatori e si allontana; come un John Wayne o un Gary Cooper: è completamente western questa concezione asciutta della solitudine dell’eroe; e dire western vuol dire radicata nel profondo dello spirito americano.
I film della fiammante vecchiaia di Eastwood - “Gli spietati” e “Un mondo perfetto”, “I ponti di Madison County” e “Potere assoluto”, citando solo gli ultimi - compongono una specie di autobiografia immaginaria, non dell’attore ma della figura cinematografica, che quindi si traduce in una sfaccettata maestosa riflessione sull’eroe vecchio. Ed è, questo grande ritratto in più film, uno dei monumenti del cinema americano.
(Nickelodeon)
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