David Fincher
Anche se nella filmografia di David Fincher “Seven” pare destinato a rimanere una vetta, col bellissimo “Fight Club” - gelida commedia nera che si allarga a suggestioni cronemberghiane - riesce a Fincher quel che non gli era riuscito nel fiacco “The Game”: trasformare il racconto in un incubo paranoico.
Che David Cronenberg sia un nume tutelare di “Fight Club”, non lo si direbbe certo a guardare la buffa e spiazzante parte iniziale, con lo yuppie Edward Norton, il narratore, che frequenta i gruppi di autoconforto di malati terminali fingendosi uno di loro (“Io non dicevo niente e la gente pensava subito al peggio”) per cercar sollievo a una tormentosa insonnia. Il che, va detto subito, pone il tema sonno/insonnia/sogno, che nel film è centrale e ritornando nell’ultima parte lo ri/struttura. Poiché “Fight Club” è un film labirintico, frattale, dove uno sviluppo apparentemente casuale ridefinisce e rimodella la configurazione complessiva.
La descrizione di questi gruppi di sofferenti è un capolavoro di humour nero (alla vivacità del dialogo e della voce narrante l’ottima sceneggiatura di Jim Uhls unisce una feroce comica inventiva). Questo film ingannevole, e molto intessuto, apre di colpo linee di sviluppo spiazzanti ma destinate a ritornare. Perfino un particolare apparentemente casuale - l’accenno, all’inizio, al trauma della perdita della virilità nel gruppo di malati di cancro ai testicoli - ritorna nel film, non solo sul piano implicito perché la frustrazione e l’impotenza sono temi che lo attraversano tutto, ma esplicitamente alla fine, quando Edward Norton rischia di essere evirato.
Una di queste brusche svolte è l’incontro con Brad Pitt, che fa il proiezionista (“Fight Club” è pieno di riferimenti allo spettacolo cinematografico; notare il discorso a doppio senso sulla “bruciatura di sigaretta”), il fabbricante di sapone, il cameriere anarchico (scorreggia sulle meringhe) nonché il bombarolo. Ed ecco l’invenzione del “fight club”, dove ci si batte a pugni nudi senza regole nell’intento di recuperare un contatto perduto con la realtà e il corpo fisico. Ed ecco che questa si sviluppa inaspettatamente in una forma di terrorismo metropolitano, in nome di un ecologismo preindustriale e pre-civile. Si forma un esercito segreto nazisteggiante: nelle memorabili parole di Edward Norton: “Il Capo si aggirava nel buio”. Sotto questo aspetto “Fight Club” è anche uno studio sul totalitarismo (l’episodio del nome dato al morto mostra come in una struttura totale un elemento contraddittorio non destruttura ma viene riassorbito). Il diffondersi del terrorismo (il Progetto Tumulto) è contemporaneamente il diffondersi della paranoia: un mondo dove tutti sono insospettabili complici della cospirazione.
Il loro segno di appartenenza, la bruciatura sulla mano, è un marchio che sta fra un paio di labbra gonfie e una vagina - questo è anch’esso un elemento sessuale cronenberghiano (“Crash”, naturalmente, ma non solo). Ciò adombra l’elemento omosessuale presente nel film, che però va al di là. Come rende chiaro lo svolgimento, in ultima analisi “Fight Club” è una folle rilettura del mito di Narciso.
Infatti il tema paranoico della Grande Cospirazione si sviluppa ulteriormente (“Fight Club” è un film massimalista se mai ne abbiamo avuti), aggredisce l’identità, tocca addirittura il rapporto fra pensiero e materia. I sottintesi metafisici del film rispondono ironicamente alla “ricerca del corpo” che lo attraversa, diversamente evidenziata nelle varie parti: all’inizio la caccia al contatto col dolore, poi la ricerca della brutalità più immediata del contatto nello scontro fisico, e via via fino al delirio finale.
La situazione finale è esattamente quella de “Il pianeta proibito”. Ma in “Fight Club” la beffarda conclusione va al di là della soluzione di quel film. Tutti i film di David Fincher sono dei cupi labirinti, in cui ci aggiriamo smarriti e impazziti.
(Il Nuovo FVG)
martedì 8 gennaio 2008
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