Frédéric Fonteyne
Non c’è niente di pornografico in “Una liaison pornographique”, titolo originale di “Una relazione privata” di Frédéric Fonteyne. Pornografica, nel senso dell’anonimato fisico del sesso, lo è stata: il film si svolge in forma di immaginaria intervista tv ai due protagonisti, che s’erano incontrati - tramite annuncio su un giornale di annunci sessuali - per soddisfare nel reciproco non coinvolgimento una loro “perversione”. Ma poi la cosa si è sviluppata in una ambigua relazione semi-amorosa, della quale soltanto il film ci racconta. In altri termini il film pone il concetto nel titolo solo per negarlo; noi vediamo questa “liaison” quando decolla dal momento “pornographique”.
Alla misteriosa fantasia erotica dei due il film non dà una figura e un nome. Se dovessimo fare un’ipotesi - visto che poi li colpisce la fisicità del sesso “normale” - dovremmo pensare che si tratti di qualcosa di non fisico, forse legato all’esibizionismo o al voyeurismo; ma è inutile, giacché questo loro oscuro comportamento sessuale precedente è come la famosa scatoletta ronzante di Luis Bunuel in “Bella di giorno”. Il film di Fonteyne gioca su una specie di voyeurismo - non dello sguardo ma della conoscenza, dell’immaginazione - da parte dello spettatore, del quale frustra le attese. E la stessa troupe d’intervistatori “sta per” la curiosità - quella sì, pornografica - dello spettatore.
E’ un’opera fredda, controllata, molto dialogata, che ricorda in qualcosa il cinema di Michel Deville (“Notte d’estate in città”). Si discute del sesso, con elegante aplomb, non senza qualche osservazione notevole (val la pena di riflettere su questa: al cinema, dicono, un rapporto sessuale “o è la Beresina o è il Nirvana” - la battaglia della Beresina equivale all’italiana Caporetto - mentre nella vita normale qualche volta c’è una via di mezzo. Più volte questo film esprime la propria distanza dai film). E sempre con la buona educazione francese delle classi alte, con l’uso del “vous” - scrivo avendo in mente la versione originale, non doppiata, vista alla Mostra di Venezia - che continua nel film anche oltre il primo contatto sessuale “fisico”; così che quando passano al “tu” sappiamo che la liaison sta diventando (è diventata) non più “pornographique”.
Questa letterarietà filosoficheggiante applicata alle cose del sesso/del corpo è molto francese (letteraria - e teatrale? Sarà anche perché i francesi hanno un grande teatro? E quanto c’entra la soave adattabilità, nel senso di eleganza più precisione, della lingua francese stessa?). A questa centralità della parola si può collegare il pudore estremo del film. Anche la scena di sesso dei due, sul letto, con lei a cavallo di lui avvolta nel lenzuolo, ha qualcosa di astratto - e, sul piano visivo, di neoclassico (quei gran drappi bianchi attorno al corpo!).
E’ uno sguardo proiettato sul sesso e sull’amore, distaccato ma poi nel ricordo bruciante, come nei primi film di Rohmer (sto pensando in particolare a “La mia notte con Maud”). E’ possibile andare a letto senza innamorarsi? Possono un uomo e una donna incontrarsi? Come per concrezione naturale vediamo ri/formarsi le logiche di relazione. Il che spaventa l’uomo, caratterizzato nella sua freddezza. Quando lei gli domanda perché non fa mai dichiarazioni d’amore, lui risponde: “Non mi pareva un buon metodo per rimorchiare”. Sarà lei a dirgli “Je t’aime”.
Ma che la vita sia molto più complicata degli schemi che questo personaggio (insisto) rohmeriano si fissa in testa, lo mostra lo stupendo episodio del tizio che muore d’infarto maledicendo sua moglie e della moglie stessa che in una scena intensissima parla ai protagonisti del marito, della sua rabbia, dei suoi tradimenti, del non poter stare senza di lui, della propria decisione di suicidarsi. Questo esempio fiammeggiante non sarà compreso; della relazione resta solo il ricordo. All’inizio e alla fine del film una folla sfocata cammina verso la macchina da presa. La vita continua, fuori fuoco e interminabile.
(Il Nuovo FVG)
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