martedì 8 gennaio 2008

The Eye

Oxide e Danny Pang

Che il cinema asiatico cominci a sfondare? La settimana scorsa recensivo su queste colonne un film coreano, ed è bello che in un paio di mesi siano stati distribuiti tre film orientali di fila: film di genere, intendo, a parte la produzione “alta” alla Tsai Ming-liang. Dopo “Shaolin Soccer” e “Oasis”, ecco un bel horror tra Hong Kong e la Thailandia, “The Eye”, scritto (con Jojo Hui), diretto e montato dai fratelli Pang. Val la pena di ricordare che l’horror è uno dei generi forti della produzione del Far East, tanto che Hollywood ne compra sovente i diritti di remake (già “The Ring” e ora “Dark Water”, entrambi di Nakata Hideo, ma anche il presente “The Eye”). Ben lo sanno gli appassionati del Far East Film Festival udinese, dove l’“horror day” è una tradizione consolidata.
I gemelli Oxide e Danny Pang sono thailandesi di origine ma sono nati e si sono formati a Hong Kong. Vivono e lavorano tra i due paesi. “The Eye” testimonia la loro modernità di linguaggio cinematografico (già vista due anni fa col noir “Bangkok Dangerous”), col suo montaggio veloce, a flashes, e le soluzioni visive folgoranti, le “inquadrature impossibili” alla Coen, come quella di un topo che viene inseguito da una vampata di fiamma dentro il suo buco.
Il film (avviso importante! A chi non l’ha già visto, conviene non leggere la presente recensione: altrimenti, come la protagonista, rischia di vedere più di quanto vorrebbe), il film, dicevo, incrocia il tema della cecità con quello della dote di vedere gli spiriti (un classico del soprannaturale asiatico, di recente parodiato da Johnnie To e Wai Ka-fai in “My Left Eye Sees Ghosts” con un grande Lau Ching-wan). Una giovane musicista cieca riottiene la vista grazie a un trapianto di cornea; però si accorge a poco a poco di avere guadagnato anche la sgradita capacità di vedersi attorno gli spiriti dei trapassati. Il film gioca un gioco abile sulla decodifica delle immagini: lo spettatore è un passo avanti alla protagonista nella comprensione, ciò che dà per esempio un tono straniato e doloroso al colloquio di lei con la bambina malata.
Questi spettri appaiono spesso nella maniera “di sfuggita” tradizionale dei fantasmi cinesi (il cinema orientale in questo coglie bene una caratteristica importante dei fantasmi, il loro farsi cogliere con la coda dell’occhio, fra incertezza e realtà; i nostri fantasmi occidentali sono spesso troppo carnosi). Presto però l’infestazione ottico-psichica della protagonista peggiora fino a farla vivere in un mondo popolato di anime vaganti - il che dà ai fratelli Pang l’opportunità di presentarci alcuni malinconici fantasmi, spaventosi ma soprattutto strazianti, sempre legati alle componenti deboli delle società asiatiche: donne e bambini. La tragica bellezza delle immagini si incrocia con la tristezza del vivere.
E’ una contraddizione interessante che per la protagonista il dono della vista materiale abbia significato più di quanto lei si aspettasse: “vede troppo”, ed è un concetto degno di nota - si penserebbe a una derivazione buddhista - che l’ampliamento delle facoltà fisiche si traduca in un impoverimento esistenziale (replicato metaforicamente in un grande dettaglio grottesco: ora che è vedente, la protagonista viene cacciata dall’orchestra di ciechi in cui suonava).
Investigando sulla causa delle sue sofferenze, la protagonista si sposta da Hong Kong alla Thailandia, sulle tracce della sua donatrice di cornea, una ragazza suicida che è stata una sorta di Cassandra thailandese (conviene ripeterlo: il tema profondo di “The Eye” non è la “ghost story” ma il dolore umano). E qui quella che sembra la fine del film si rivela imprevedibilmente solo un passaggio che ci porta verso un’altra, più completa e drammatica (nonché spettacolare) conclusione. Che incrocia la storia della protagonista con quella della suicida thailandese al di là della nuda materialità casuale di una cornea trapiantata - e che sposta allusivamente il racconto su un piano metafisico di vite coincidenti e di predestinazione.

(Il Nuovo FVG)

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