lunedì 7 gennaio 2008

Eros

Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh, Wong Kar Wai


Si dice (lo dicono i bombardati, per consolarsi) che ricevere addosso un escremento di piccione porti buono. Sarà, ma non ha portato né fortuna né saggezza al poeta Tonino Guerra la cacca di piccione che si fa piovere addosso come testimonial in uno spot tv. Non lo ha spinto, come sceneggiatore, a risparmiare agli spettatori dell’antologia “Eros” l’orribile episodio “Il filo pericoloso delle cose”, firmato da Michelangelo Antonioni (anche come co-sceneggiatore).
Sarebbe ingeneroso speculare - come pure a Venezia si è fatto - su quanto sia effettivamente di Antonioni e quanto della moglie, che gli fa da tramite e portavoce dopo la malattia. Peraltro, che Antonioni fosse artisticamente finito si sapeva già dai tempi di “Al di là delle nuvole”; eppure quello era un film sbagliato, ma almeno un film. “Il filo...” è un metro cubo di nulla, che ha il solo effetto di lasciare una macchia finale sulla reputazione di un regista già grande.
Come struttura questo segmento di “Eros” potrebbe essere la parodia involontaria di un qualunque episodio di “Fallo!” di Tinto Brass; sennonché il sottovalutato Tinto è molto più bravo non solo sul piano della fisicità - non ci stupisce - ma anche su quello filosofico. “Il filo...” è tutto fintume, inconsistenza, falsità artificiosa che aspira all’immediata riconoscibilità dell’etichetta “poetica”, plastificazione, sostituzione della profondità col surrogato di un’“artisticità” precotta. Invero sta all’autentico cinema di Antonioni come in tv una puntata di Maria De Filippi sta a “Scene da un matrimonio” di Bergman.
Quell’autoreferenzialità culturale che, per il bene o per il male, è sempre stata una caratteristica di Antonioni si è così trasformata in autopromozione. Il dialogo dell’episodio è puerilmente para-poetico, i gesti vanamente simbolici (il bicchiere al ristorante); la pronuncia delle battute è, volutamente, quel che si potrebbe definire epico-squinternata. Tutto ciò serve a sovrimprimere illusoriamente sul testo, agli occhi dello spettatore, quel senso di opera d’arte che non si sa concretamente raggiungere. Non occorre insistere sul fatto che questa è la definizione classica di Kitsch.
Anche sul piano eponimo dell’eros i risultati non sono niente di che; se le due ragazze sulle rocce fossero fotografate più da vicino, ci troveremmo nell’ambito del benemerito calendario “Le Furlane” sull’Arzino o sul Palâr. Lampeggia effettivamente, ad essere onesti, un attimo di erotismo nell’inquadratura audace di una donna che, nuda sul letto, si carezza intimamente prima dell’amore. Ma è un attimo perso fra la plastica e la musichetta del supermarket intellettuale.
Lo spettatore di “Eros” non dia però fuoco alla poltrona dopo l’episodio di Antonioni: il film prosegue in ascesa. Tralasciando l’acuto e divertente episodio di Steven Soderbergh “Equilibrium”, dove però l’eros ha un ruolo importante ma laterale, bisogna menzionare il bellissimo “La mano” di Wong Kar Wai, indubbiamente il pezzo forte fra i tre.
Storia d’amore inespresso fra un giovane sarto (Chang Chen) e la sua cliente (Gong Li), che prima è una mantenuta d’alto bordo e poi una prostituta in declino gravemente malata, “La mano” a noi occidentali potrebbe ricordare i magnifici racconti di De Mandiargues, ma si situa interamente nella tradizione del grande mélo cinese. E’ un mélo elegantemente raggelato eppure bollente, un fuoco freddo, esaltato da sublimi momenti di sospensione sul volto immobile di Gong Li mentre echeggiano le note di una canzone. Wong Kar Wai organizza splendidamente il racconto in un raffinato gioco fra il vedere e l’udire: una sorta di voyeurismo del suono che non nega ma prepara l’emozionante (e, in chiusura, lancinante) enunciazione dell’immagine. E alla fine le parole del racconto pietosamente menzognero del sarto, “Era così felice, e così bella” - che casualmente in italiano realizzano un rotondo endecasillabo - suggellano l’episodio con una grandezza commovente che davvero mi sento di definire pucciniana.

(Il Nuovo FVG)

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