venerdì 4 gennaio 2008

Elizabeth - The Golden Age

Shekhar Kapur

Perché il cinema ama tanto Elisabetta I? Non solo per la sua dimensione “bigger than life” ma perché la Grande Elisabetta, la regina vergine, è fra i monarchi della storia chi meglio incarna nell’inconscio collettivo il Corpo Reale – cioè la cosa più vicina a un divo dei mass media d’oggi. Varrebbe lo stesso per Luigi XIV; ma Luigi XIV è antipatico, mentre la Buona Regina Bess è una grande (cosa avrà portato il suo popolo, secoli dopo, a delirare per una sciacquetta come Lady Diana? Non si fanno più gl’inglesi di una volta!). Così, molte attrici si sono infilate le scarpe di Elisabetta, in primo luogo Bette Davis; e forse la migliore dopo la mitica Bette è Cate Blanchett, che la incarnò nel 1998 in “Elizabeth” di Shekhar Kapur e a distanza di dieci anni torna nel seguito “Elizabeth – The Golden Age”. Per il quale il regista indiano ha richiamato lo sceneggiatore Michael Hirst (qui con William Nicholson), il direttore della fotografia Remi Aderafasin e la montatrice Jill Bilcock.
Una continuità che non è solo tecnica: il presente film si collega idealmente al finale del precedente, quando la giovane regina accettava di trasformarsi per il suo popolo in una sorta di icona, che potesse sostituire l’archetipo femminile della Vergine Maria. “Elizabeth – The Golden Age” ci narra la difficile esistenza della donna chiusa dentro quest’icona, questa figura sacra dal viso bianco (la biacca spalmata abbondantemente sul volto del re lo distacca dai comuni mortali e lo trasforma in un corpo immutabile), dalla sfarzosa parrucca di capelli rossi. Un simbolismo che culmina nella sua apparizione come vergine guerriera in armatura su un cavallo bianco, sulla scogliera davanti alla quale si combatte la battaglia navale tra la flotta inglese e l’Invencible Armada.
Vediamo Elizabeth dibattersi all’interno di questo bozzolo semi-mistico che la rinserra: l’incanto per la libertà rappresentata da Walter Raleigh, l’innamoramento impossibile, la gelosia per la sua dama di compagnia Elizabeth Trockmorton che lo sposa e ha un figlio. La casualità storica del nome in comune ha suggerito agli sceneggiatori moderni l’idea di Elizabeth Trockmorton come “doppio” della Regina (abbiamo un soprassalto alla frase ambigua “Elizabeth ha un figlio”), che si risolve infine in una sorta di delega dell’amore e della maternità alla propria omonima. Ora Elizabeth riconciliata con il suo ruolo di regina pronuncia guardando in macchina una grande tirata (“Sono la vostra regina. Sono me stessa”) ch’è la risposta dialettica al finale del primo film.
L’inizio coi titoli di testa su vetrate istoriate sia spagnole sia inglesi instaura un parallelismo. Tutto il film si basa su una contrapposizione totale, di ambienti, luci, religione, politica, Weltanschauung, psicologia, colori, costumi, spazi, prossemica, lingua (nel film gli spagnoli parlano in spagnolo sottotitolato); al fine di esprimerla, il montaggio parallelo è la forma retorica favorita del film. In primo luogo, naturalmente, montaggio parallelo fra Elisabetta e Filippo II (un uomo perso nelle sue ossessioni, nell’intensa interpretazione di Jordi Molla); ma non solo: esso accosta la scena di sesso di Raleigh e Bess Trockmorton all’immagine di Elisabetta nuda, coi capelli tagliati corti, solitaria e fragile fuori da quel bozzolo di regalità che la imprigiona; collega l’esecuzione di Maria Stuarda (incarnata magnificamente da Samantha Morton) e il nervosismo isterico di Elisabetta che l‘ha mandata a morte.
Meno baroccheggiante del primo “Elizabeth”, questo è comunque un film audacemente espressivo. Un elemento visionario corre sotto la superficie, ed esplode nella sequenza della battaglia navale: quella polena a testa di leopardo che sfonda la murata della nave spagnola, quel cavallo bianco finito in mare che nuota inquadrato da sott’acqua, quegli arredi sacri che affondano… “Elizabeth – The Golden Age” è grande spettacolo, un quadro sontuoso fino alla pomposità ma convinto e coinvolgente. God Save the Queen!

(Il Nuovo FVG)

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