sabato 12 gennaio 2008

Cast Away

Robert Zemeckis

In un vecchio film di Tanner, per bocca di un insegnante eterodosso ascoltiamo un’indimenticabile lezione sul tempo borghese, misurato, parcellizzato, scandito: il tempo industriale, il tempo moderno.
E’ appunto una stimolante riflessione su questo tempo “Cast Away” di Robert Zemeckis: film non dei migliori del bravo regista americano, in ultima analisi non riuscito, ma non privo di interesse (attenzione: questa recensione svela parti dello svolgimento). Il suo difetto sta nella pesante sceneggiatura di William Broyles jr., soverchiamente preoccupata che lo spettatore non colga i suoi ponderosi simbolismi: da cui, ridondanze e sottolineature. Così il film risulta privo (strano, pel regista di “Forrest Gump”!) di levità e di humour, anche al di fuori della sezione centrale sulla vita del naufrago, che costituisce la sua parte migliore.
Infatti Tom Hanks, dirigente di una ditta di spedizioni, vive dentro il - e per il - tempo. Ne è compenetrato. Il suo oggetto simbolo è l’orologio. Ma ecco che un incidente aereo di cui è l’unico sopravvissuto lo scaraventa su un’isola deserta: fuori dalla vita civile, fuori dagli affetti privati (la paziente fidanzata Helen Hunt), soprattutto fuori da quel tempo parcellizzato di cui aveva fatto la sua “raison d’être”. L’orologio si ferma e rimane utile solo come contenitore per la foto della fidanzata. Vivendo la dura vita del naufrago solitario (Robert Zemeckis sa renderne bene la solitudine e la paura), per logica necessità Tom Hanks ritrova dolorosamente il tempo “fluido”, dilatato e ciclico della natura.
Il film sembra indeciso se suggerire che questo tempo eterno porta con sé, come del resto è logico, la riscoperta della mentalità primitiva. Vero che il protagonista si foggia un compagno, con un pallone (relitto del naufragio) su cui ha disegnato col sangue una faccia vagamente umana. Mentre però la scena in cui riesce per la prima volta a produrre il fuoco pare trasformare il pallone in una divinità aborigena, in seguito troviamo questo pallone umanizzato solo come amico e sodale, un compagno di vita battezzato Wilson. In effetti si nota nel film l’assenza dell’elemento religioso, cosa psicologicamente poco credibile (in quella condizione perfino Karl Marx si sarebbe concesso una preghiera). Razionalismo “politically correct”? Lo sceneggiatore William Broyles cita nel film Robinson Crusoe, ma se conoscesse quel grande testo del nostro secolo che è “Il signore delle mosche” di William Golding avrebbe compreso meglio la “notte dell’anima” e l’impulso del regresso alle origini connessi allo stato robinsoniano.
Quando Tom Hanks riesce a ritornare dal suo esilio selvaggio, possiamo trovare implicita nel film un’osservazione meritevole d’attenzione: dal punto di vista della nostra società basata sul tempo moderno, il tempo ritornante e fluido dell’isola sperduta è identificato con la morte. Il protagonista era morto e hanno dovuto fargli il funerale, apprende lui al ritorno. “Tornare dal regno dei morti”, ecco come l’annunciatrice televisiva definisce la sua esperienza. “Ti riporteremo in vita”, gli dice un amico parlando del suo reinserimento nella società.
Essendo “morto”, ha lasciato la fidanzata vedova; lei naturalmente si è sposata con un altro uomo - e adesso? Qui, se avesse il filo d’ironia che gli manca, il film avrebbe potuto esplorare l’assurdità logica e morale della monogamia; invece sceglie di risolvere la cosa in modo piatto, effettistico (un mélo troppo pompato), quasi televisivo. Per sfociare infine nel supersimbolismo di un crocevia aperto a tutte le possibilità (il crocevia della vita, di cui si fa cicerone una bella ragazza che più che un’opportunità di scelta è una portavoce del Destino). Povero Tom Hanks, una volta reimmessi nel nostro tempo, resta il problema: usarlo per fare cosa? In ogni modo è giusto aggiungere che il suo enigmatico sorriso alla fine di questa scena e del film è il miglior suggello a un’eccellente interpretazione.

(Il Nuovo FVG)

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