sabato 12 gennaio 2008

Buena Vista Social Club

Wim Wenders

“Buena Vista Social Club” di Wim Wenders si apre con un viaggio nel passato, la ricerca del luogo dove sorgeva il Buena Vista nelle vecchie strade dell’Avana. “Dove sono i vecchi?”. Già: dove sono i vecchi, dov’è la memoria? I vecchi giganti della musica popolare cubana che appaiono nel film erano semi-dimenticati nel loro stesso paese. Li ha in un certo senso fatti rinascere la registrazione realizzata da Ry Cooder col disco “Buena Vista Social Club”. Val la pena di ricordare che Wenders in tutta la sua opera, è sempre stato molto interessato a questo: alla registrazione: al suo statuto linguistico ed etico. E’ una riflessione frammista di dubbio che attraversa tutto il suo cinema.
Forse è proprio questo dubbio a renderlo un grande autore di documentari. Come Werner Herzog, ma per ragioni opposte; Herzog proietta il suo Io titanico-romantico sul mondo esterno che riprende; al contrario l’involuto, tormentato Wenders è come rassicurato dal dover arrestarsi davanti a un “altro da sé”. Qualcosa che - come dire - gli resiste. In “Buena Vista Social Club” Wenders trova qualcosa di assolutamente forte, di completamente resistente - perché completamente felice: la musica cubana.
Così Wenders segue Ry Cooder nel suo viaggio (altra parola molto wendersiana) a ritrovare i maestri, Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo, Eliades Ochoa, Pio Levya, Puntillito, il pianista Ruben Gonzalez, il bassista Orlando Lopez “Cachaito”, il percussionista Amadito Valdès, il trombettista Manuel Mirabal Vazquez, il suonatore di “laud” Barbarito Torres... La macchina da presa di Wenders si cala gentilmente e avidamente sulle immagini. Le risucchia. Si appropria di un’Avana di bellezza (le bambine della scuola di danza attorno al pianoforte di Ruben Gonzalez) e di povertà (l’evidenza del degrado), fotografata in colori ora pastello, ora rossastri. Esplora con una partecipazione che diventa fulminea perspicacia quei visi rugosi (Compay Segundo ha novantadue anni, Ibrahim Ferrer novanta, e si vanta di fumare da ottantacinque); ruba la loro musica, il loro modo di salutare il pubblico dopo un applauso, la loro vitalità; la quotidianità; un povero appartamento; una manciata di vecchie fotografie. La memoria. Ogni musicista si presenta, racconta i suoi inizi, parla della sua vita.
Quando la macchina a presa gira in modo avvolgente attorno a Ibrahim Ferrer e Omara Portuondo che cantano in accordo perfetto una canzone di insinuante bellezza, ci fulmina cogliendo un minimo gesto, un sorriso d’accordo, un occhio inumidito, un bacio alla fine. “Que linda es la musica”, dice Eliades Ochoa. Il film restituisce senza ombre la calda bellezza di questa musica, nei suoi accordi romantici e nel ritmo travolgente (Cuba, dice un’intervista, è la Mecca dei percussionisti), la dimessa eleganza popolare dei testi, e quella fratellanza che trasforma le esecuzioni in una specie di jam session intessuta di memorabili assolo. Fonde questa musica in un flusso continuo, passando con naturalezza dai concerti trionfali di Amsterdam e della Carnegie Hall a New York, alle registrazioni, all’improvvisazione in una stanza. Sulla stessa canzone, stacchi visivi e attacchi sonori unificano l’eseguirla in concerto e il semplice strimpellarla per strada a Cuba.
E’ un film certamente malinconico: è un’elegia del tempo che è fuggito. Queste canzoni sono “neiges d’antan”. Il film ne esplora la tenue sopravvivenza (Omara Portuolo cammina cantando per strada di un quartiere povero, la gente la saluta e la segue) e l’incombente perdita (il trionfo alla Carnegie Hall - la dignità con cui questi anziani musicisti ricevono l’ovazione! - è già una beatificazione). E tuttavia è un film robusto e sereno, che sa parlare di sopravvivenza e di forza, di allegria e di incontri, e di tristezze e di morti di amici. Dà sollievo che “Buena Vista Social Club” arrivi dopo il tonfo della carriera di Wenders, l’unico suo film, credo, non difendibile, “La fine della violenza”. E’ anch’esso una rinascita.

(Il Nuovo FVG)

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