martedì 8 gennaio 2008

Almost Blue

Alex Infascelli

In un’annata di cinema italiano in cui, come di regola, ad alcuni film interessanti si sono mescolati i consueti sprofondi italioti inenarrabili (“Denti” di Salvatores, “Malèna” di Tornatore), per contrasto appare innovativo e rinfrescante forse persino al di sopra dei suoi effettivi meriti il discreto “Almost Blue - Quasi blu”, opera prima di Alex Infascelli, nipote della regista Fiorella.
Caccia a un serial killer nell’ambiente degli studenti universitari a Bologna: ove in realtà la novità non è l’idea di un serial killer a Bologna ma il modo “anti-italiano” in cui Infascelli ce lo racconta. Lontano cioè dal bozzettismo, dal regionalismo, dall’umanitarismo un po’ peloso ch’è il marchio di fabbrica ormai stinto e televisivo del “giallo” italiano medio (niente a che vedere con un gigante come Dario Argento...). Infascelli disegna un universo che è italiano solo dal punto di vista, per così dire, “anagrafico”, ma potrebbe essere indefinito. Bologna come Grenoble o come Düsseldorf. Sentiresti le stesse musiche, vedresti gli stessi visi (forse i poliziotti saprebbero usare meglio il computer - ma forse questa è un’idea che ci facciamo dal cinema).
Un’assimilazione culturale che si duplica e si riflette in un’assimilazione del linguaggio cinematografico. Come taglio delle inquadrature, montaggio “isterico” (Alex Infascelli viene dal videoclip e si vede), uso della musica - per inciso, questo film è uno dei migliori esempi di lavoro sul suono in tutta la recente produzione italiana - “Almost Blue” potrebbe essere americano o francese. Beninteso, non è un prodotto internazionale nel senso di anodino, come i cosiddetti “euro-turkeys” che vediamo in televisione. L’italianità si sente (accenti, visi; deliziosi quei carabinieri capitanati dal bravo caratterista Luis Molteni), ma all’interno dell’assimilazione linguistica; ed anzi è uno degli aspetti più interessanti del film il dialogo fra l’elemento “materico” italiano e questa sorta di stile “internazionale” (siccome uno dei personaggi principali si chiama Simone Martini, l’espressione viene proprio in taglio).
Si tratta di un film manierista, ma piacevole. Anche se una forte carica di artificialità lo attraversa (vediamo pure, come lampi, i “colori delle voci” nella percezione di un cieco: “Almost Blue”, oltre che la canzone, è la voce della protagonista), progredendo acquista un’“allure” e una sicurezza invidiabili per il cinema italiano. Funziona anche sul piano del thriller (è sceneggiato col regista da Sergio Donati, che di atmosfere malate se ne intende da sempre). In America Alex Infascelli ha lavorato con David Fincher, e si sente che sul piano ideale l’autore di “Seven” è un nume tutelare del film. Nota l’uso grafico assai buono del sangue (fa un particolare effetto all’inizio quel piede sporco di sangue che entra nudo in una scarpa). Ma è anche il racconto implicito di una possibile storia d’amore, sorretto da un’interpretazione sensibile di Lorenza Indovina.
Un difetto sono alcuni dialoghi: l’unico punto in cui il film talvolta ricorda, in senso negativo, la sua nazionalità italiana. Il modo goffo di contrabbandare le informazioni attraverso il dialogo (“Ah, ma allora voi siete quel gruppo di Roma che...”). Il fatto che nei film italiani i personaggi devono sempre prendere la parola per raccontare solennemente la loro vita (nel DNA degl’italiani c’è una voglia oratoria!). Anche un accenno di lezione “concerned”, nel discorso del poliziotto sugli studenti che stanno male (dovremmo piangere?). Però la stessa scena è accompagnata da una bella carrellata di visi: “Almost Blue” ha un mucchio di fisionomie interessanti (studenti, poliziotti, la padrona di casa). Delinea velocemente e con sicurezza un mondo nebuloso di studentesse colla mania dell’Oriente, clonatori di telefonini, pazzoidi e sfigati: un dolore esistenziale generale. Probabilmente Alex Infascelli ha ancora da imparare sul piano narrativo, ma è un talento sicuro.

(Il Nuovo FVG)

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