Edgar Wright
Diversi
anni fa, Stephen King pubblicò alcuni romanzi sotto lo pseudonimo
Richard Bachman; i migliori sono La lunga marcia (The Long Walk) e
L’uomo in fuga (The Running Man). Quest’ultimo è poi diventato
un film, L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger; ora torna sugli
schermi come The Running Man, diretto da Edgar Wright e ben
interpretato da Glen Powell, più fedele dell’altro al romanzo
originale.
Siamo
in un futuro distopico, nel quale la tv organizza un gioco mortale:
sotto l’occhio voyeuristico delle telecamere, un concorrente per
soldi deve sfuggire, per un dato periodo di tempo, a dei Cacciatori
legalmente autorizzati a ucciderlo, mentre il pubblico televisivo fa
il tifo per l’uno o gli altri. Come si vede, siamo solo un passo
oltre rispetto alle varie Temptation Islands dell’oscenità
televisiva di oggi. Va detto che
il romanzo di
King è largamente debitore
(eufemismo!) a un paio di
profetici
racconti
di
Robert Sheckley (La settima
vittima, da cui un film di Elio Petri, e Sprezzo del pericolo)
risalenti addirittura agli
anni Cinquanta. Sheckley era
un autore satirico di tutto rispetto, finché non cadde in preda alla
tentazione arty di molta fantascienza del periodo seguente.
Partecipa
al gioco per povertà e
disperazione il padre di
famiglia, con figlioletta
malata, Ben Richards (Glen
Powell), spinto e
incoraggiato da due figure
che più odiose non si può, il
produttore Dan
Killian (Josh Brolin) e il
presentatore Bobby Thompson
(Colman Domingo). Ma che il
network giochi sporco non è una sorpresa – se non per il running
man. Edgar Wright,
anche co-sceneggiatore,
regola
i conti con la televisione, non solo esponendo il modo in cui
fabbrica una falsa realtà ma anche divertendosi a parodiare en
passant la soap opera.
L’inglese
Wright è un regista che si distingue per un approccio vivace,
diretto, quasi brutale, ma con un grano di follia (Hot
Fuzz, Scott Pilgrim vs. the World, The World’s End, Ultima notte a
Soho) che può
trasformarsi in bizzarro
umorismo anarchico – anche
al di là di una comedy
quale L’alba dei morti dementi.
Ve
n’è un esempio anche nel presente film, con
una casa piena di sorprese
e di trappole, come in un
Buster Keaton perverso. Lo
stile moderno
di Wright si vede bene nel modo in cui visualizza i pensieri
(nella trattativa con Killian, vediamo dapprima come realtà la
tentazione di Ben Richards
di sfasciargli la testa sul tavolo), anche incrociandoli abilmente
col racconto (il riconoscimento di un Cacciatore sotto le spoglie di
un falso barbone matto).
Il
film mette in scena un’America futura in confronto alla quale Blade
Runner sembra Honolulu. Autore molto portato agli inseguimenti e
all’azione (si pensi a Baby Driver – Il genio della fuga), Wright
conduce il racconto con tutta la tensione del caso; ma l’aspetto
avventuroso sul fuggitivo spietatamente inseguito non gli fa mai
dimenticare una carica di protesta sociale.
Nonostante
il tentativo del network di presentarlo come un farabutto, Ben
Richards diventa un eroe per gli emarginati. E il film –
attenzione, spoiler! – mette in scena addirittura una rivoluzione,
sebbene sul piano personale il lieto fine sia chiaramente
appiccicato.
Curiosità:
Edgar Wright esordì in Italia a Udine, accompagnando il suo primo
film, il super-indipendente A Fistful of Fingers, alla rassegna
“Eurowestern" nel 1997. Da allora, ne ha fatta di strada.

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