domenica 16 novembre 2025

The Running Man

Edgar Wright

Diversi anni fa, Stephen King pubblicò alcuni romanzi sotto lo pseudonimo Richard Bachman; i migliori sono La lunga marcia (The Long Walk) e L’uomo in fuga (The Running Man). Quest’ultimo è poi diventato un film, L’implacabile, con Arnold Schwarzenegger; ora torna sugli schermi come The Running Man, diretto da Edgar Wright e ben interpretato da Glen Powell, più fedele dell’altro al romanzo originale.
Siamo in un futuro distopico, nel quale la tv organizza un gioco mortale: sotto l’occhio voyeuristico delle telecamere, un concorrente per soldi deve sfuggire, per un dato periodo di tempo, a dei Cacciatori legalmente autorizzati a ucciderlo, mentre il pubblico televisivo fa il tifo per l’uno o gli altri. Come si vede, siamo solo un passo oltre rispetto alle varie Temptation Islands dell’oscenità televisiva di oggi. Va detto che il romanzo di King è largamente debitore (eufemismo!) a un paio di profetici racconti di Robert Sheckley (La settima vittima, da cui un film di Elio Petri, e Sprezzo del pericolo) risalenti addirittura agli anni Cinquanta. Sheckley era un autore satirico di tutto rispetto, finché non cadde in preda alla tentazione arty di molta fantascienza del periodo seguente.
Partecipa al gioco per povertà e disperazione il padre di famiglia, con figlioletta malata, Ben Richards (Glen Powell), spinto e incoraggiato da due figure che più odiose non si può, il produttore Dan Killian (Josh Brolin) e il presentatore Bobby Thompson (Colman Domingo). Ma che il network giochi sporco non è una sorpresa – se non per il running man. Edgar Wright, anche co-sceneggiatore, regola i conti con la televisione, non solo esponendo il modo in cui fabbrica una falsa realtà ma anche divertendosi a parodiare en passant la soap opera.
L’inglese Wright è un regista che si distingue per un approccio vivace, diretto, quasi brutale, ma con un grano di follia (Hot Fuzz, Scott Pilgrim vs. the World, The World’s End, Ultima notte a Soho) che può trasformarsi in bizzarro umorismo anarchico – anche al di là di una comedy quale L’alba dei morti dementi. Ve n’è un esempio anche nel presente film, con una casa piena di sorprese e di trappole, come in un Buster Keaton perverso. Lo stile moderno di Wright si vede bene nel modo in cui visualizza i pensieri (nella trattativa con Killian, vediamo dapprima come realtà la tentazione di Ben Richards di sfasciargli la testa sul tavolo), anche incrociandoli abilmente col racconto (il riconoscimento di un Cacciatore sotto le spoglie di un falso barbone matto).
Il film mette in scena un’America futura in confronto alla quale Blade Runner sembra Honolulu. Autore molto portato agli inseguimenti e all’azione (si pensi a Baby Driver – Il genio della fuga), Wright conduce il racconto con tutta la tensione del caso; ma l’aspetto avventuroso sul fuggitivo spietatamente inseguito non gli fa mai dimenticare una carica di protesta sociale.
Nonostante il tentativo del network di presentarlo come un farabutto, Ben Richards diventa un eroe per gli emarginati. E il film – attenzione, spoiler! – mette in scena addirittura una rivoluzione, sebbene sul piano personale il lieto fine sia chiaramente appiccicato.
Curiosità: Edgar Wright esordì in Italia a Udine, accompagnando il suo primo film, il super-indipendente A Fistful of Fingers, alla rassegna “Eurowestern" nel 1997. Da allora, ne ha fatta di strada.

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