giovedì 13 novembre 2025

The Mastermind

Kelly Reichardt 

Mille anni fa, Jean-Luc Godard buttava bombe narrative sotto il polar (piani di rapine e gangster in fuga) soffermandosi sui tempi intermedi mentre i momenti forti dell’azione erano o elisi o parodiati. Ce lo fa tornare in mente (in tutt’altro clima culturale, naturalmente, e non parliamo neanche di analogie di grandezza) l’interessante film di Kelly Reichardt The Mastermind. “Mastermind” è in inglese il cervello dietro un crimine; ma qui di cervello ce n’è poco. Siamo all’inizio degli anni Settanta. Un imbecille, James Mooney (Josh O’Connor), sposato con due figli, in passato (apprendiamo) studente d’arte fallito, decide di rubare in pieno giorno nel museo della cittadina quattro quadri di un maestro contemporaneo. Non sembra così difficile perché la sicurezza (con un guardiano sempre addormentato) è a livello Louvre. James arruola due balordi (uno è una sostituzione dell’ultimo momento) per fare materialmente il colpo e consegnargli le tele.
Ovviamente tutto comincia ad andare a rotoli fin dal giorno dopo – e qui entra il nostro discorso. La tragicomica sequenza del furto, che in un normale heist movie sarebbe centrale, qui è (come si direbbe in arte: siamo in argomento) risolta in una serie di schizzi. Invece più tardi, quando James deve nascondere il bottino al piano superiore di un granaio, l’operazione… togliere i quadri dalla cassa, portarli su a due a due per una scala a pioli, poi portare su la cassa, rimetterci dentro le tele, infine risolvere il problema della scala che è caduta… è seguita in un tempo reale, immediato, che fa contare ogni secondo (al cinema, si sa, il tempo reale significa un tempo dilatato). Beninteso, non è certo la prima volta che un film si concentra sul tempo reale, il tempo quotidiano, l’immediatezza assoluta e via dicendo. Ma è molto più raro che ciò accada all’interno di uno svolgimento legato al cinema di genere.
Una fenomenologia dell’immediato immediato si incrocia nella seconda parte con lo sviluppo narrativo di James in fuga, dopo che tutto il piano è collassato – mantenendo quella stupidità assolutamente irriflessiva che si potrebbe considerare un frutto maligno dell’epoca, ma che poi è andata anche peggio. Respinto da due vecchi amici, James si aggira senza sapere che fare in quella specie di deserto sociale che è la sterminata solitudine americana. Kelly Reichardt si attiene all’immediato, non ne fa una metafora politica e nemmeno un’elegia della solitudine – sebbene la dimensione politica sia indubbiamente presente (sono gli anni della guerra del Vietnam) e inneschi la feroce beffa del destino che conclude la fuga.
Josh O’Connor è assai bravo ma in particolare colpisce, fra le molte buone interpretazioni, Alana Haim nel ruolo della moglie delusa Terri, che non sapeva niente del crimine. Sotto una maschera di impassibilità ha, davanti all’incoscienza assoluta del marito, delle espressioni di furiosa e trattenuta disperazione davvero memorabili.

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