Kelly Reichardt
Mille
anni fa, Jean-Luc Godard buttava bombe narrative sotto il polar
(piani di rapine e gangster in fuga) soffermandosi sui tempi
intermedi mentre i momenti forti dell’azione erano o elisi o
parodiati. Ce lo fa tornare in mente (in tutt’altro clima
culturale, naturalmente, e non parliamo neanche di analogie di
grandezza) l’interessante film di Kelly Reichardt The Mastermind.
“Mastermind” è in inglese il cervello dietro un crimine; ma qui
di cervello ce n’è poco. Siamo all’inizio degli anni Settanta.
Un imbecille, James Mooney (Josh O’Connor), sposato con due figli,
in passato (apprendiamo) studente d’arte fallito, decide di rubare
in pieno giorno nel museo della cittadina quattro quadri di un
maestro contemporaneo. Non sembra così difficile perché la
sicurezza (con un guardiano sempre addormentato) è a livello Louvre.
James arruola due balordi (uno è una sostituzione dell’ultimo
momento) per fare materialmente il colpo e consegnargli le tele.
Ovviamente
tutto comincia ad andare a rotoli fin dal giorno dopo – e qui entra
il nostro discorso. La tragicomica sequenza del furto, che in un
normale heist movie sarebbe centrale, qui è (come si direbbe in
arte: siamo in argomento) risolta in una serie di schizzi. Invece più
tardi, quando James deve nascondere il bottino al piano superiore di
un granaio, l’operazione… togliere i quadri dalla cassa, portarli
su a due a due per una scala a pioli, poi portare su la cassa,
rimetterci dentro le tele, infine risolvere il problema della scala
che è caduta… è seguita in un tempo reale, immediato, che fa
contare ogni secondo (al cinema, si sa, il tempo reale significa un
tempo dilatato). Beninteso, non è certo la prima volta che un film
si concentra sul tempo reale, il tempo quotidiano, l’immediatezza
assoluta e via dicendo. Ma è molto più raro che ciò accada
all’interno di uno svolgimento legato al cinema di genere.
Una
fenomenologia dell’immediato immediato si incrocia nella seconda
parte con lo sviluppo narrativo di James in fuga, dopo che tutto il
piano è collassato – mantenendo quella stupidità assolutamente
irriflessiva che si potrebbe considerare un frutto maligno
dell’epoca, ma che poi è andata anche peggio. Respinto da due
vecchi amici, James si aggira senza sapere che fare in quella specie
di deserto sociale che è la sterminata solitudine americana. Kelly
Reichardt si attiene all’immediato, non ne fa una metafora politica
e nemmeno un’elegia della solitudine – sebbene la dimensione
politica sia indubbiamente presente (sono gli anni della guerra del
Vietnam) e inneschi la feroce beffa del destino che conclude la fuga.
Josh
O’Connor è assai bravo ma in particolare colpisce, fra le molte
buone interpretazioni, Alana Haim nel ruolo della moglie delusa
Terri, che non sapeva niente del crimine. Sotto una maschera di
impassibilità ha, davanti all’incoscienza assoluta del marito,
delle espressioni di furiosa e trattenuta disperazione davvero
memorabili.

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