Francesco Sossai
Il
notevole Le
città di pianura di
Francesco Sossai, scritto con
Adriano Candiago, cattura splendidamente l’universo
veneto; e in particolare ci
porta dentro il paesaggio
veneto in tutte le sue possibili declinazioni: quello popolare (col
rimpianto del posto dove si mangiavano le lumache con polenta
migliori), quello
classico-elevato (le ville), quello artistico (la descrizione di un
“capriccio” della scuola del Veronese), nonché
quello contemporaneo
dei non-luoghi che si
sovrimprimono sui precedenti e
li cancellano (dice
un personaggio: ci sono tante infrastrutture
ma non un posto dove andare).
Appare
nuovo e originale, in
un contesto così marcatamente
locale, lo stile moderno del
film, visibile fin
dall’apertura,
laddove ci aspetteremmo un
cheto classicismo. Questo è dovuto
anche all’eccellente lavoro di Luigi Kuveiller,
direttore della fotografia; e
va menzionato lo sperimentato montatore
Paolo Cottignola (che ha lavorato con Olmi, Mazzacurati, Diritti).
Facciamo
la conoscenza di Carlobianchi
e Doriano (Sergio Romano e
Pierpaolo Capovilla,
eccellenti),
due
figure rabelaisiane di ubriaconi seguaci
della Diva Bottiglia, dai trascorsi poco commendevoli (furti
in fabbrica). I primissimi
piani di fortemente
ravvicinati di questi due avvinazzati
ottimisti sono
un vero filo
rosso visuale del film.
Girano fra Treviso e Venezia
bevendo
continuamente “l’ultimo” bicchiere,
costellando il viaggio di
ziocàn. Dovrebbero
recuperare un amico ed ex
complice, di
ritorno da un lungo esilio in
Argentina,
all’aeroporto; ma non hanno le idee chiare in proposito.
Per
strada “rapiscono”
amichevolmente un
giovane timido che
studia architettura (Filippo
Scotti), triste perché la
ragazza che gli piace sembra preferirgli un cialtrone, e
se lo portano dietro: così
il
film diventa un Bildungsroman, un racconto di formazione, in cui i
due simpaticissimi sciagurati lo iniziano alla vita e
alla capacità di prendere decisioni.
Un po’ come ne Il sorpasso, ma senza tragedia.
Nota
bene che bevendo i
due hanno capito qual
è il segreto del mondo, ma
purtroppo l’hanno dimenticato. Quando
ne parlano a Giulio, lui fa:
“E’ il segreto del mondo mondo o del vostro mondo?” – “Che
differenza c’è?” – “Appunto” (mangiati il fegato, Edmund
Husserl!).
Il
carattere di road movie del film lo rende necessariamente un po’
episodico, ma c’è una
felicità di racconto nella cronaca di queste tappe, dove spiccano
“lezioni” piacevoli e interessanti, come quella sull’utilità
marginale (però la ricerca dell’“ultimo” fa eccezione), o
quella sul “capriccio”, o
la bellissima lezione di
architettura su Carlo Scarpa visitando
la Tomba Brion.
Chiaro che, sotto
le bevute e le risate, serpeggia
una
vena di malinconia. Su
un Veneto stravolto dalla modernità (è
un imprevisto dolore,
per noi spettatori, scoprire
assieme ai
nostri due
la mitica
trattoria “Da Mery”,
quella delle lumache,
chiusa e in rovina – come
una Shangri-la perduta). Sui
destini futuri:
c’è nel film il vago sogno di un tesoro, un miraggio un po’ alla
John Huston. E soprattutto
sulla vita, su
questo correre continuo dietro all’alcool e
alla festa, mentre gli anni
scivolano via: “Ma voi non
crescete mai?”, dice il vecchio padre di uno; risposta: “Siamo
troppo vecchi per crescere”.
Invero c’è una stanchezza nascosta nella festa continua; non stupisce che
nel film s’intraveda la presenza sotterranea della morte. Tutto
vero – ma c’è sempre tempo per l’ultimo bicchiere.
Nessun commento:
Posta un commento