domenica 26 ottobre 2025

La ragazza del coro

Urška Djukić

Discutere il titolo dato in Italia a un film straniero, per inventarne un altro, è l’operazione più oziosa che ci sia. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che per La ragazza del coro (lo sloveno Little Trouble Girls di Urška Djukić) sarebbe stato più adatto “L’uva acerba”, dal sapore francese/truffautiano che si adatta bene alla storia. Perché al di là di un episodio che vediamo (uva acerba mangiata dalla protagonista come penitenza di un peccato), l’uva ancora acerba è proprio la metafora della sua prima adolescenza, con le sue incertezze e le sue paure, che è l’argomento del film. Infatti nella conclusione la protagonista Lucia, adolescente cresciuta a giovane donna confidente al posto della ragazzina di prima, compra al mercato e mangia con gusto un ricco grappolo d’uva matura, sulle note della canzone del titolo originale, mentre appaiono i titoli di coda.
La ragazza del coro è un Bildungsroman – a prima vista, del tutto realistico. Racconta l’avventura della sedicenne Lucia (Jara Sofija Ostan), che canta nel coro della chiesa cattolica, in un viaggio dalla Slovenia a Cividale del Friuli assieme alle compagne, (decisamente più scafate di lei), alloggiate in convento, per le prove di un concerto da tenersi là. A casa Lucia vive una normale vita familiare, con una madre autoritaria, che la critica per essersi messa il rossetto quasi per gioco fra le compagne, ed è rassegnata accanto al marito che quando non è al lavoro dorme sul divano. Guardano insieme la televisione (niente scene spinte però!) mangiando cioccolata.
A differenza delle compagne Lucia non ha ancora avuto la prima mestruazione. C’è nel film un continuo discorso sulla verginità; quando le ragazze arrivano a Cividale e appare il Ponte del Diavolo, sentiamo la storia leggendaria del sacrificio di una vergine per costruire il ponte; c’è un interessante colloquio delle ragazze con una suora su come si vive il “nubilato”. Soprattutto, v’è un collegamento soggettivo fra Lucia e con la Madonna – o, come si dice, la Vergine. Una scena mostra in rapido montaggio una serie di edicole (tempietti) dedicati alla Madonna. Più tardi, nel gioco notturno di “obbligo o verità”, Lucia riceve l’ordine di baciare appassionatamente la ragazza più bella del convento – dopo un bel momento di sospensione, va, seguita dalle altre, fino alla statua della Vergine nell’atrio e incolla le sue labbra a quelle di marmo.
L’arrivo a Cividale è anche marcato dall’improvvisa visione di un uomo nudo sul greto del Natisone. Come si vedrà, è uno degli operai che lavorano nel cortile del convento, e che le ragazze spiano e commentano, arrivando a rubare la maglietta dell’uomo per annusarla. Lucia sperimenta il suo risveglio della sessualità; che comprende desideri e paure, pulsioni e sensi di colpa. In questo turbamento (Lucia poi ha già di suo una tendenza a perdersi nei suoi pensieri), la sua partecipazione al coro va a rotoli.
Il montaggio veloce di una serie di inquadrature in dettaglio di fiori in piena apertura esalta la loro natura fastosa, sensuale, insolentemente erotica. Un’ape che si introduce in un fiore, nella bella fotografia di Lev Predan Kowarski, non solo allude alla sessualità ma ci ricorda che basta il dettaglio molto ravvicinato, l’ingrandimento, per rendere fantastica la realtà. Infatti: all’interno di una narrazione apparentemente realista (almeno sino al finale) emergono nascostamente dei tratti, degli squarci, dei palpiti, che aprono nascostamente un’altra realtà; il film possiede il dono di un suo implicito surrealismo (che storicamente è molto presente nel cinema est-europeo) nel trattare la sessualità nascente, la passione, la paura. Tanto che risale alla memoria un film cecoslovacco di Jaromir Jireš, che non era un regista surrealista ma in quel caso, 1970, sì: Valerie a týden divú (Valerie and Her Week of Wonders), che è molto diverso, eppure sembra un parallelo (interamente onirico) di questo film.
La rottura della mano della statua della Madonna in atrio, che – sappiamo – è stata rotta dagli operai, in un’allucinazione, è causata da Lucia; non sarebbe sbagliato collegarlo con la scena (pudica come tutto il film) della masturbazione. È da notare che l’amica Ana-Maria non rappresenta soltanto un’irridente ateismo favorevole alla sessualità senza pensieri (“Siamo animali”): figura di tentatrice, eppure desiderata, Ana-Maria è più volte connotata da inquadratura e illuminazione sotto il segno del demoniaco.
L’ardire di Lucia da sola di spiare (e fotografare) l’operaio nudo sul greto del fiume porta a un loro incontro muto da vicino: che a prima vista sembra un difetto del film, uno sviluppo alla David Herbert Lawrence che si oppone alla sua atmosfera di leggerezza delle sensazioni; ma non lo è, se nell’interminabile inquadratura che li vede insieme, di profilo in silenzio, prima che Lucia fugga, riconosciamo il motivo classico dell’incontro col fauno.
Non sappiamo come sia proseguita la vita di Lucia, né la sua partecipazione al coro. Ma certo l’immagine della ragazza che vediamo alla fine del film ci dice, in un modo che potremmo definire trionfale, che l’uva è non è più acerba.

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