Urška Djukić
Discutere
il titolo dato in Italia a un film straniero, per inventarne un
altro, è l’operazione più oziosa che ci sia. Tuttavia non posso
fare a meno di pensare che per La ragazza del coro (lo sloveno Little
Trouble Girls di Urška Djukić) sarebbe stato più adatto “L’uva
acerba”, dal sapore francese/truffautiano che si adatta bene alla
storia. Perché al di là di un episodio che vediamo (uva acerba
mangiata dalla protagonista come penitenza di un peccato), l’uva
ancora acerba è proprio la metafora della sua prima adolescenza, con
le sue incertezze e le sue paure, che è l’argomento del film.
Infatti nella conclusione la protagonista Lucia, adolescente
cresciuta a giovane donna confidente al posto della ragazzina di
prima, compra al mercato e mangia con gusto un ricco grappolo d’uva
matura, sulle note della canzone del titolo originale, mentre
appaiono i titoli di coda.
La
ragazza del coro è un Bildungsroman – a prima vista, del tutto
realistico. Racconta l’avventura della sedicenne Lucia (Jara
Sofija Ostan), che canta nel coro della chiesa cattolica, in un
viaggio dalla Slovenia a Cividale del Friuli assieme alle compagne,
(decisamente più scafate di lei), alloggiate in convento, per le
prove di un concerto da tenersi là. A casa Lucia vive una normale
vita familiare, con una madre autoritaria, che la critica per essersi
messa il rossetto quasi per gioco fra le compagne, ed è rassegnata
accanto al marito che quando non è al lavoro dorme sul divano.
Guardano insieme la televisione (niente scene spinte però!)
mangiando cioccolata.
A
differenza delle compagne Lucia non ha ancora avuto la prima
mestruazione. C’è nel film un continuo discorso sulla verginità;
quando le ragazze arrivano a Cividale e appare il Ponte del Diavolo,
sentiamo la storia leggendaria del sacrificio di una vergine per
costruire il ponte; c’è un interessante colloquio delle ragazze
con una suora su come si vive il “nubilato”. Soprattutto, v’è
un collegamento soggettivo fra Lucia e con la Madonna – o, come si
dice, la Vergine. Una scena mostra in rapido montaggio una serie di
edicole (tempietti) dedicati alla Madonna. Più tardi, nel gioco
notturno di “obbligo o verità”, Lucia riceve l’ordine di
baciare appassionatamente la ragazza più bella del convento – dopo
un bel momento di sospensione, va, seguita dalle altre, fino alla
statua della Vergine nell’atrio e incolla le sue labbra a quelle di
marmo.
L’arrivo
a Cividale è anche marcato dall’improvvisa visione di un uomo nudo
sul greto del Natisone. Come si vedrà, è uno degli operai che
lavorano nel cortile del convento, e che le ragazze spiano e
commentano, arrivando a rubare la maglietta dell’uomo per
annusarla. Lucia sperimenta il suo risveglio della sessualità; che
comprende desideri e paure, pulsioni e sensi di colpa. In questo
turbamento (Lucia poi ha già di suo una tendenza a perdersi nei suoi
pensieri), la sua partecipazione al coro va a rotoli.
Il
montaggio veloce di una serie di inquadrature in dettaglio di fiori
in piena apertura esalta la loro natura fastosa, sensuale,
insolentemente erotica. Un’ape che si introduce in un fiore, nella
bella fotografia di Lev Predan Kowarski, non solo allude alla
sessualità ma ci ricorda che basta il dettaglio molto ravvicinato,
l’ingrandimento, per rendere fantastica la realtà. Infatti:
all’interno di una narrazione apparentemente realista (almeno sino
al finale) emergono nascostamente dei tratti, degli squarci, dei
palpiti, che aprono nascostamente un’altra realtà; il film
possiede il dono di un suo implicito surrealismo (che storicamente è
molto presente nel cinema est-europeo) nel trattare la sessualità
nascente, la passione, la paura. Tanto che risale alla memoria un
film cecoslovacco di Jaromir Jireš, che non era un regista
surrealista ma in quel caso, 1970, sì: Valerie a týden divú
(Valerie and Her Week of Wonders), che è molto diverso, eppure
sembra un parallelo (interamente onirico) di questo film.
La
rottura della mano della statua della Madonna in atrio, che –
sappiamo – è stata rotta dagli operai, in un’allucinazione, è
causata da Lucia; non sarebbe sbagliato collegarlo con la scena
(pudica come tutto il film) della masturbazione. È da notare che
l’amica Ana-Maria non rappresenta soltanto un’irridente ateismo
favorevole alla sessualità senza pensieri (“Siamo animali”):
figura di tentatrice, eppure desiderata, Ana-Maria è più volte
connotata da inquadratura e illuminazione sotto il segno del
demoniaco.
L’ardire
di Lucia da sola di spiare (e fotografare) l’operaio nudo sul greto
del fiume porta a un loro incontro muto da vicino: che a prima vista
sembra un difetto del film, uno sviluppo alla David Herbert Lawrence
che si oppone alla sua atmosfera di leggerezza delle sensazioni; ma
non lo è, se nell’interminabile inquadratura che li vede insieme,
di profilo in silenzio, prima che Lucia fugga, riconosciamo il motivo
classico dell’incontro col fauno.
Non
sappiamo come sia proseguita la vita di Lucia, né la sua
partecipazione al coro. Ma certo l’immagine della ragazza che
vediamo alla fine del film ci dice, in un modo che potremmo definire
trionfale, che l’uva è non è più acerba.

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