Accanto
all'applauditissimo “Cirano de Bergerac” di Augusto Genina, che
ha aperto con successo le Giornate del Cinema Muto sabato sera, anche
la programmazione del pomeriggio ha contenuto le consuete gemme
(bellissimo, fra i nuovi Griffith restaurati, “Romance of a
Jewess”, dove la narrazione in interni si apre in due brevi squarci
autentici sul quartiere ebreo newyorkese del Lower East Side degni
del neorealismo). Ma un'assoluta sorpresa è stata il film ucraino
“Tre”.
Vladimir
Majakovskij scrisse sette sceneggiature per il cinema, ma solo due
trovarono la strada dello schermo. Una è “Tre” (“Troye”),
deliziosa commedia giovanile diretta da Oleksandr Solovyov e
presentata dalle Giornate nell'ambito della rassegna sul cinema
ucraino per ragazzi. Questo cinema (spiega Ivan Kozlenko sul catalogo
del festival) era considerato “meno serio” di quello per il
pubblico adulto, pur mantenendo l'obbligatoria impostazione
ideologica; di conseguenza godeva di budget più limitati, però gli
era concessa una vena di relativa libertà.
Girato
con grande inventiva, con la bellissima fotografia di Albert
Kuhn,“Tre” mette a confronto tre esistenze di ragazzini, che
confluiscono alla fine nell'associazione dei Pionieri (una specie di
boy scout ideologizzati). Zhorzhik è figlio di un ricco borghese;
siamo nel 1928 e quindi il film allude qui a un “nepman”, un
arricchito della Nuova Politica Economica di relativa apertura.
Tuttavia è attratto dall'“altra parte”, i Pionieri comunisti
aborriti dal padre. Senka è un ragazzo di strada, uno dei tanti che
rappresentavano una vera piaga sociale dell'epoca; la presentazione è
buffamente esagerata, una specie di Robinson Crusoe vestito di
stracci che dorme in una barca in compagnia di due pantegane bianche.
Il terzo è il piccolo Miska, Pioniere convinto, la classica figura
positiva – però un minimo d'ironia ci scappa anche qui, quando
vediamo questo bambino studiare, per un discorso, “Das Kapital”.
Quando due vagabondi rapiscono Senka scambiandolo per Zhorzhik a
scopo di riscatto, il racconto si ispira al famoso racconto di O.
Henry “Il riscatto di Capo Rosso”.
La
comicità sia dei due banditi sia del padre borghese inguaribilmente
stupido si contrappone alla felicità solare del collettivismo dei
Pionieri. Ma quello che soprattutto colpisce nel film è l'allegra
libertà dello stile. Rovesciamenti di inquadratura e accelerazioni
nella fotografia, gustose divagazioni e ghiribizzi nella narrazione
rendono sorprendente questo film girato nell'epoca in cui si stava
imponendo l'ordine spesso plumbeo del “realismo socialista”.
Basta menzionare la bellissima digressione su una famiglia proletaria
strapiena di bambini piccoli, che ne fanno di tutti i colori, con una
sfrontatezza che non si sarebbe trovata neppure nel cinema americano
coevo delle “piccole canaglie”. La felice libertà narrativa di
“Tre” ricorda, se cerchiamo un paragone nel cinema “adulto”
di allora, un nome in particolare: quello del grande, e troppo poco
ricordato, Boris Barnet.
(Messaggero Veneto)
Un
capolavoro di Fritz Lang, proiettato in una copia bellissima con un
grande accompagnamento musicale di Ilya Poletaev, ha impreziosito la
domenica delle Giornate del Cinema Muto. “Der müde Tod” (ossia
“La Morte stanca”), del 1921, fu scritto con Lang da Thea von
Harbou, allora sua moglie, che fra l'altro vi porta quel gusto per
l'allegoria presente anche nel loro “Metropolis”. In Italia il
film fu conosciuto come “Destino” o, con traduzione del titolo
francese, “Le tre luci”.
Tre
luci: tre fiammelle che stanno per estinguersi nella grande stanza
delle candele, dove ogni candela rappresenta una vita umana, nel
palazzo della Morte. Poiché la Morte ha rapito il giovane fidanzato
di una ragazza (la grande Lil Dagover), costei riesce a recarsi nel
suo palazzo per implorare che le venga restituito. Bisogna tener
presente che in tedesco come in inglese e nelle lingue nordiche
“morte” è maschile, e quindi viene raffigurata come un uomo
(ricordate il bergmaniano “Il settimo sigillo”?). La Morte, che
qui ha il volto severo di Bernhard Goetzke, è appunto stanca del suo
lavoro, che è quello di semplice esecutore dei decreti del destino.
Di fronte alle implorazioni della ragazza, le concede di restituirle
il promesso sposo se lei riuscirà a salvare almeno una vita, una
delle tre fiammelle, in tre esistenze differenti.
Così
il film si sviluppa in tre episodi, dove ritornano gli stessi volti,
a significare l'ossessivo, inesorabile ritorno del fato nelle nostre
vite. Questi tre racconti sono tre diverse incarnazioni del
“meraviglioso” cinematografico; con tale struttura narrativa
Fritz Lang realizza anche un catalogo delle possibilità del cinema,
ricorrendo a una superba varietà di stili, mescolando ora un forte
realismo ora una semi-astrazione “espressionista” in una salda
unità. Una storia di carattere simbolista fa da cornice, aprendo e
chiudendo il film, ai tre racconti caratterizzati dall'elemento
esotico frequente nel cinema tedesco dell'epoca. Un esotismo
realistico nel primo, che si svolge in una Bagdad dove la sorella del
califfo è l'amante segreta di un “franco”, cioè un infedele
occidentale, e quando questi è catturato cerca invano di salvargli
la vita. Il fascino anch'esso esotico del passato e del cinema in
costume nel secondo, ambientato in una Venezia rinascimentale dove
una dama, destinata a sposare un nobile crudele, cerca di salvare il
suo innamorato dalla vendetta del potente: la conclusione è una
tragica beffa da tragedia elisabettiana. Infine, l'esotismo di una
Cina puramente fiabesca dove Lang si getta pienamente nel fantastico,
con una gustosa ironia, riempiendo l'episodio di piacevolissimi
trucchi fotografici.
Per
la splendida costruzione dell'inquadratura, con effetti pittorici (e
citazioni), Lang usò tre diversi direttori della fotografia. Lil
Dagover naturalmente interpreta tutte queste incarnazioni della donna
che si batte contro la potenza del destino; ed è questo, il destino,
il tema che attraverserà tutto il cinema langhiano.
(Messaggero
Veneto)
Com'è
giusto le Giornate del Cinema Muto mettono alla sera il film che
ritengono più importante, e ieri sera, lunedì, "Zingari"
di Mario Almirante, 1920, era buono, con tratti di sguardo
"folkloristico" e una bella interpretazione energica di
Italia Almirante Manzini. Ma come filmone di lunedì ne scelgo uno di
17 minuti che ha aperto la giornata: "The Taming of the Shrew"
(1908) di David Wark Griffith, unico film shakespeariano del maestro.
Proprio quello che fu rimproverato al breve adattamento, una fisicità
che sfocia nel farsesco, oggi ci appare moderno e irresistibile.
Florence Lawrence nel ruolo di Caterina, la bisbetica domata, è
perfetta. Bisogna vederla che si aggira con una grinta che non
promette nulla di buono e copre d'insulti e botte tutti i poveracci
che la circondano. Petruccio a sua volta riuscirà a domarla
terrorizzando i domestici, ridotti a un ammasso umano tremante sotto
le sferzate.
La
grande, e sfortunata in vita, Florence Lawrence (che fu la "Biograph
Girl" originale), si guadagna con questo film un bel posto nella
galleria del Bardo al cinema.
Se
durante la visione del film devi furtivamente asciugarti qualche
lacrima, che dire?, non c'è dubbio su quale sia il filmone di
martedì alle Giornate del Cinema Muto. "Lian'ai Yu Yiwu / Love
and Duty", Cina 1931, è uno splendido melodramma diretto da Bu
Wancang, prodotto dalla Lianhua, che era lo studio progressista di
Shanghai, e interpretato dalla grandissima Ruan Lingyu, la diva
cinese per eccellenza dell'epoca.
La
sua è un'interpretazione potente e stratificata: non perché
raddoppia brevemente il suo ruolo interpretando, oltre che la madre
da anziana, la figlia (che non sa di esserlo), ma perché copre con
l'ausilio del trucco un'intera vita, da adolescente a donna adulta a
vecchia sdentata, sempre con una profondità e un'aderenza
interpretativa appassionanti.
L'affetto
materno è il filo conduttore di questa storia di una donna che fugge
da un matrimonio combinato dal padre per unirsi all'uomo che ama, e
dopo la morte di questi si sacrifica per la figlia avuta con lui, nel
contempo disperandosi per i due figli lasciati al marito che ignorano
la sua esistenza. Il suo pianto espresso o trattenuto - tutti i
personaggi piangono spesso nel film - tocca il cuore: come per la
Renée Falconetti di Dreyer, non è recitazione esteriore ma
stupefacente immedesimazione.
Una
delizia, mercoledì alle Giornate del Cinema Muto, "Lagourdette
gentleman cambrioleur" (1916), in cui un Louis Feuillade
autoparodistico scherza assieme a Musidora sul loro geniale serial
"Les Vampires" dell'anno precedente. Ma se devo scegliere
"il" filmone della giornata, è il dramma "Die Dame
mit der Maske" di Wilhelm Thiele, Germania 1928.
Nella
Weimar dell'inflazione (bella introduzione filmata di Hans Richter)
una aristocratica, per sbarcare il lunario insieme al barone suo
padre, accetta - all'insaputa del vecchio gentiluomo - di esibirsi a
teatro seminuda, col patto di avere il volto coperto da una maschera.
Ruotano attorno a lei complicazioni e desideri, come quello di un
grasso e prepotente arricchito (però per ogni personaggio c'è al
fondo una comprensione umana).
Wilhelm
Thiele dirige nello stile sontuoso del "Grande Muto".
Arlette Marchal interpreta con grande distinzione (e in un ruolo non
protagonista c'è anche Dita Parlo!)
Giovedì
alle Giornate del Cinema Muto: quale scegliere come tradizionale
"filmone" in una giornata splendida? Il magnifico uso dello
spazio in un film del 1913, il famoso "Gli ultimi giorni di
Pompei" di Eleuterio Rodolfi? Il perverso "homo homini
lupus" di Abel Gance, "Le droit à la vie", del 1917?
Per non parlare del nostro-sempre-nostro Chaplin.
Oppure
- ecco! - "The White Heather" di Maurice Tourneur, del
1919, che inizia ingannevolmente sottotono per poi scatenarsi in quel
particolarissimo incrocio di realismo e astrazione che rappresenta il
marchio di fabbrica di questo regista geniale. Certe sue soluzioni
pittoriche fanno venire un colpo al cuore quando appaiono sullo
schermo. "The White Heather" parte come un melodramma e si
conclude come un film d’avventura, con la grande scena della lotta
subacquea fra i due palombari, che però non è l'unica a fornire
immagini indimenticabili. Tutti parlano sempre, giustamente, della
grandezza di Jacques Tourneur, ma noi amanti del cinema muto sappiamo
che suo padre non era affatto da meno.
Venerdì
son potuto andare solo la mattina, alle Giornate del Cinema Muto, ma
non mi sono mancati tre buoni film. Il filmone è “Världens
grymheit” (La crudeltà del mondo), 1912, film d’esordio di
Victor Sjöström, che fu censurato e non uscì mai in Svezia. Nella
storia di una ragazza perseguitata da un possidente mascalzone, le
inquadrature della natura hanno una tersa bellezza propria del cinema
nordico, con i protagonisti che vi si inseriscono, anche con
sensualità, senza soverchiarla.
Diversissimo
ma notevole l’italiano “La piccola parrocchia”, 1923, di Mario
Almirante, con la diva Italia Almirante Manzini, che era sua cugina.
Figura senz’altro interessante, Mario Almirante mostra in questo
complesso e variegato melodramma una propensione per il simbolo.
Infine, è sciolto e divertente “Il siluramento dell’Oceania”,
un giallo avventuroso di Augusto Genina del 1917 – dove fra l’altro
la figura del maggiordomo Fedele (nomen omen) si inserisce nella
nuova voga dei forzuti. E infatti Alfredo Boccolini diventerà
Galaor.
Ogni
anno ci si sente un po’ soli e abbandonati, come Cosetta, alla fine
delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Nel sabato di chiusura
sono riuscito a vedere solo due film imperdibili: al mattino “The
Scarlet Drop” di John Ford (1918), riscoperto in Cile, e la sera il
bellissimo, inutile dirlo, “Our Hospitality” (1923) di Buster
Keaton e Jack Blystone (Buster, a differenza di altri, segnalava
sempre i suoi collaboratori alla regia).
Ogni
volta la riscoperta di un film di John Ford del primo periodo (lui
all’inizio si firmava Jack Ford, e per gli amici fu Jack tutta la
vita) è un regalo e un miracolo. Anche qui c’è molto da
ricordare, anche al di là dell’uso fordiano del paesaggio. Sul
piano narrativo, l’accenno alla guerra civile – la grande ferita
sanguinante dei western di Ford – con l’inquadratura di un
Lincoln addolorato ma determinato che apre il film, e la vivace
descrizione della frattura di classe nella società bianca del Sud,
con Harry Carey a piedi nudi contro i ricchi Calvert. Sul piano
visuale menziono il bellissimo uso del buio, nonché una scena
stupefacente in cui Molly Malone innamorata vede il viso di Harry
Carey (sovrimpressione) nella pietra scura del suo anello.
Sul
restauro ci sarebbe qualcosa da dire. Il film ci è pervenuto in
cattive condizioni: non solo manca un’intera bobina ma la parte
salvata è alquanto lacunosa e mancano molte didascalie. L'aspetto
visivo è ok ma sarebbe stato assai opportuno che la copia restaurata
contenesse dei cartelli che chiarifichino le parti mancanti.
Personalmente ho dovuto consultare, dopo la visione, la scheda del
catalogo per capire cosa succede.
Sapete,
questi recuperi di tesori nascosti, che rispuntano all’improvviso
da collezioni e cineteche, sono l’aspetto più emozionante
dell’amore per il cinema muto. Tengono viva la speranza!

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