martedì 21 ottobre 2025

Giornate del Cinema Muto 2025

 

Accanto all'applauditissimo “Cirano de Bergerac” di Augusto Genina, che ha aperto con successo le Giornate del Cinema Muto sabato sera, anche la programmazione del pomeriggio ha contenuto le consuete gemme (bellissimo, fra i nuovi Griffith restaurati, “Romance of a Jewess”, dove la narrazione in interni si apre in due brevi squarci autentici sul quartiere ebreo newyorkese del Lower East Side degni del neorealismo). Ma un'assoluta sorpresa è stata il film ucraino “Tre”.
Vladimir Majakovskij scrisse sette sceneggiature per il cinema, ma solo due trovarono la strada dello schermo. Una è “Tre” (“Troye”), deliziosa commedia giovanile diretta da Oleksandr Solovyov e presentata dalle Giornate nell'ambito della rassegna sul cinema ucraino per ragazzi. Questo cinema (spiega Ivan Kozlenko sul catalogo del festival) era considerato “meno serio” di quello per il pubblico adulto, pur mantenendo l'obbligatoria impostazione ideologica; di conseguenza godeva di budget più limitati, però gli era concessa una vena di relativa libertà.
Girato con grande inventiva, con la bellissima fotografia di Albert Kuhn,“Tre” mette a confronto tre esistenze di ragazzini, che confluiscono alla fine nell'associazione dei Pionieri (una specie di boy scout ideologizzati). Zhorzhik è figlio di un ricco borghese; siamo nel 1928 e quindi il film allude qui a un “nepman”, un arricchito della Nuova Politica Economica di relativa apertura. Tuttavia è attratto dall'“altra parte”, i Pionieri comunisti aborriti dal padre. Senka è un ragazzo di strada, uno dei tanti che rappresentavano una vera piaga sociale dell'epoca; la presentazione è buffamente esagerata, una specie di Robinson Crusoe vestito di stracci che dorme in una barca in compagnia di due pantegane bianche. Il terzo è il piccolo Miska, Pioniere convinto, la classica figura positiva – però un minimo d'ironia ci scappa anche qui, quando vediamo questo bambino studiare, per un discorso, “Das Kapital”. Quando due vagabondi rapiscono Senka scambiandolo per Zhorzhik a scopo di riscatto, il racconto si ispira al famoso racconto di O. Henry “Il riscatto di Capo Rosso”.
La comicità sia dei due banditi sia del padre borghese inguaribilmente stupido si contrappone alla felicità solare del collettivismo dei Pionieri. Ma quello che soprattutto colpisce nel film è l'allegra libertà dello stile. Rovesciamenti di inquadratura e accelerazioni nella fotografia, gustose divagazioni e ghiribizzi nella narrazione rendono sorprendente questo film girato nell'epoca in cui si stava imponendo l'ordine spesso plumbeo del “realismo socialista”. Basta menzionare la bellissima digressione su una famiglia proletaria strapiena di bambini piccoli, che ne fanno di tutti i colori, con una sfrontatezza che non si sarebbe trovata neppure nel cinema americano coevo delle “piccole canaglie”. La felice libertà narrativa di “Tre” ricorda, se cerchiamo un paragone nel cinema “adulto” di allora, un nome in particolare: quello del grande, e troppo poco ricordato, Boris Barnet.

(Messaggero Veneto)


Un capolavoro di Fritz Lang, proiettato in una copia bellissima con un grande accompagnamento musicale di Ilya Poletaev, ha impreziosito la domenica delle Giornate del Cinema Muto. “Der müde Tod” (ossia “La Morte stanca”), del 1921, fu scritto con Lang da Thea von Harbou, allora sua moglie, che fra l'altro vi porta quel gusto per l'allegoria presente anche nel loro “Metropolis”. In Italia il film fu conosciuto come “Destino” o, con traduzione del titolo francese, “Le tre luci”.
Tre luci: tre fiammelle che stanno per estinguersi nella grande stanza delle candele, dove ogni candela rappresenta una vita umana, nel palazzo della Morte. Poiché la Morte ha rapito il giovane fidanzato di una ragazza (la grande Lil Dagover), costei riesce a recarsi nel suo palazzo per implorare che le venga restituito. Bisogna tener presente che in tedesco come in inglese e nelle lingue nordiche “morte” è maschile, e quindi viene raffigurata come un uomo (ricordate il bergmaniano “Il settimo sigillo”?). La Morte, che qui ha il volto severo di Bernhard Goetzke, è appunto stanca del suo lavoro, che è quello di semplice esecutore dei decreti del destino. Di fronte alle implorazioni della ragazza, le concede di restituirle il promesso sposo se lei riuscirà a salvare almeno una vita, una delle tre fiammelle, in tre esistenze differenti.
Così il film si sviluppa in tre episodi, dove ritornano gli stessi volti, a significare l'ossessivo, inesorabile ritorno del fato nelle nostre vite. Questi tre racconti sono tre diverse incarnazioni del “meraviglioso” cinematografico; con tale struttura narrativa Fritz Lang realizza anche un catalogo delle possibilità del cinema, ricorrendo a una superba varietà di stili, mescolando ora un forte realismo ora una semi-astrazione “espressionista” in una salda unità. Una storia di carattere simbolista fa da cornice, aprendo e chiudendo il film, ai tre racconti caratterizzati dall'elemento esotico frequente nel cinema tedesco dell'epoca. Un esotismo realistico nel primo, che si svolge in una Bagdad dove la sorella del califfo è l'amante segreta di un “franco”, cioè un infedele occidentale, e quando questi è catturato cerca invano di salvargli la vita. Il fascino anch'esso esotico del passato e del cinema in costume nel secondo, ambientato in una Venezia rinascimentale dove una dama, destinata a sposare un nobile crudele, cerca di salvare il suo innamorato dalla vendetta del potente: la conclusione è una tragica beffa da tragedia elisabettiana. Infine, l'esotismo di una Cina puramente fiabesca dove Lang si getta pienamente nel fantastico, con una gustosa ironia, riempiendo l'episodio di piacevolissimi trucchi fotografici.
Per la splendida costruzione dell'inquadratura, con effetti pittorici (e citazioni), Lang usò tre diversi direttori della fotografia. Lil Dagover naturalmente interpreta tutte queste incarnazioni della donna che si batte contro la potenza del destino; ed è questo, il destino, il tema che attraverserà tutto il cinema langhiano.

(Messaggero Veneto)

Com'è giusto le Giornate del Cinema Muto mettono alla sera il film che ritengono più importante, e ieri sera, lunedì, "Zingari" di Mario Almirante, 1920, era buono, con tratti di sguardo "folkloristico" e una bella interpretazione energica di Italia Almirante Manzini. Ma come filmone di lunedì ne scelgo uno di 17 minuti che ha aperto la giornata: "The Taming of the Shrew" (1908) di David Wark Griffith, unico film shakespeariano del maestro. Proprio quello che fu rimproverato al breve adattamento, una fisicità che sfocia nel farsesco, oggi ci appare moderno e irresistibile. Florence Lawrence nel ruolo di Caterina, la bisbetica domata, è perfetta. Bisogna vederla che si aggira con una grinta che non promette nulla di buono e copre d'insulti e botte tutti i poveracci che la circondano. Petruccio a sua volta riuscirà a domarla terrorizzando i domestici, ridotti a un ammasso umano tremante sotto le sferzate.
La grande, e sfortunata in vita, Florence Lawrence (che fu la "Biograph Girl" originale), si guadagna con questo film un bel posto nella galleria del Bardo al cinema.

Se durante la visione del film devi furtivamente asciugarti qualche lacrima, che dire?, non c'è dubbio su quale sia il filmone di martedì alle Giornate del Cinema Muto. "Lian'ai Yu Yiwu / Love and Duty", Cina 1931, è uno splendido melodramma diretto da Bu Wancang, prodotto dalla Lianhua, che era lo studio progressista di Shanghai, e interpretato dalla grandissima Ruan Lingyu, la diva cinese per eccellenza dell'epoca.
La sua è un'interpretazione potente e stratificata: non perché raddoppia brevemente il suo ruolo interpretando, oltre che la madre da anziana, la figlia (che non sa di esserlo), ma perché copre con l'ausilio del trucco un'intera vita, da adolescente a donna adulta a vecchia sdentata, sempre con una profondità e un'aderenza interpretativa appassionanti.
L'affetto materno è il filo conduttore di questa storia di una donna che fugge da un matrimonio combinato dal padre per unirsi all'uomo che ama, e dopo la morte di questi si sacrifica per la figlia avuta con lui, nel contempo disperandosi per i due figli lasciati al marito che ignorano la sua esistenza. Il suo pianto espresso o trattenuto - tutti i personaggi piangono spesso nel film - tocca il cuore: come per la Renée Falconetti di Dreyer, non è recitazione esteriore ma stupefacente immedesimazione.

Una delizia, mercoledì alle Giornate del Cinema Muto, "Lagourdette gentleman cambrioleur" (1916), in cui un Louis Feuillade autoparodistico scherza assieme a Musidora sul loro geniale serial "Les Vampires" dell'anno precedente. Ma se devo scegliere "il" filmone della giornata, è il dramma "Die Dame mit der Maske" di Wilhelm Thiele, Germania 1928.
Nella Weimar dell'inflazione (bella introduzione filmata di Hans Richter) una aristocratica, per sbarcare il lunario insieme al barone suo padre, accetta - all'insaputa del vecchio gentiluomo - di esibirsi a teatro seminuda, col patto di avere il volto coperto da una maschera. Ruotano attorno a lei complicazioni e desideri, come quello di un grasso e prepotente arricchito (però per ogni personaggio c'è al fondo una comprensione umana).
Wilhelm Thiele dirige nello stile sontuoso del "Grande Muto". Arlette Marchal interpreta con grande distinzione (e in un ruolo non protagonista c'è anche Dita Parlo!)

Giovedì alle Giornate del Cinema Muto: quale scegliere come tradizionale "filmone" in una giornata splendida? Il magnifico uso dello spazio in un film del 1913, il famoso "Gli ultimi giorni di Pompei" di Eleuterio Rodolfi? Il perverso "homo homini lupus" di Abel Gance, "Le droit à la vie", del 1917? Per non parlare del nostro-sempre-nostro Chaplin.
Oppure - ecco! - "The White Heather" di Maurice Tourneur, del 1919, che inizia ingannevolmente sottotono per poi scatenarsi in quel particolarissimo incrocio di realismo e astrazione che rappresenta il marchio di fabbrica di questo regista geniale. Certe sue soluzioni pittoriche fanno venire un colpo al cuore quando appaiono sullo schermo. "The White Heather" parte come un melodramma e si conclude come un film d’avventura, con la grande scena della lotta subacquea fra i due palombari, che però non è l'unica a fornire immagini indimenticabili. Tutti parlano sempre, giustamente, della grandezza di Jacques Tourneur, ma noi amanti del cinema muto sappiamo che suo padre non era affatto da meno.


Venerdì son potuto andare solo la mattina, alle Giornate del Cinema Muto, ma non mi sono mancati tre buoni film. Il filmone è “Världens grymheit” (La crudeltà del mondo), 1912, film d’esordio di Victor Sjöström, che fu censurato e non uscì mai in Svezia. Nella storia di una ragazza perseguitata da un possidente mascalzone, le inquadrature della natura hanno una tersa bellezza propria del cinema nordico, con i protagonisti che vi si inseriscono, anche con sensualità, senza soverchiarla.
Diversissimo ma notevole l’italiano “La piccola parrocchia”, 1923, di Mario Almirante, con la diva Italia Almirante Manzini, che era sua cugina. Figura senz’altro interessante, Mario Almirante mostra in questo complesso e variegato melodramma una propensione per il simbolo. Infine, è sciolto e divertente “Il siluramento dell’Oceania”, un giallo avventuroso di Augusto Genina del 1917 – dove fra l’altro la figura del maggiordomo Fedele (nomen omen) si inserisce nella nuova voga dei forzuti. E infatti Alfredo Boccolini diventerà Galaor.


Ogni anno ci si sente un po’ soli e abbandonati, come Cosetta, alla fine delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Nel sabato di chiusura sono riuscito a vedere solo due film imperdibili: al mattino “The Scarlet Drop” di John Ford (1918), riscoperto in Cile, e la sera il bellissimo, inutile dirlo, “Our Hospitality” (1923) di Buster Keaton e Jack Blystone (Buster, a differenza di altri, segnalava sempre i suoi collaboratori alla regia).
Ogni volta la riscoperta di un film di John Ford del primo periodo (lui all’inizio si firmava Jack Ford, e per gli amici fu Jack tutta la vita) è un regalo e un miracolo. Anche qui c’è molto da ricordare, anche al di là dell’uso fordiano del paesaggio. Sul piano narrativo, l’accenno alla guerra civile – la grande ferita sanguinante dei western di Ford – con l’inquadratura di un Lincoln addolorato ma determinato che apre il film, e la vivace descrizione della frattura di classe nella società bianca del Sud, con Harry Carey a piedi nudi contro i ricchi Calvert. Sul piano visuale menziono il bellissimo uso del buio, nonché una scena stupefacente in cui Molly Malone innamorata vede il viso di Harry Carey (sovrimpressione) nella pietra scura del suo anello.
Sul restauro ci sarebbe qualcosa da dire. Il film ci è pervenuto in cattive condizioni: non solo manca un’intera bobina ma la parte salvata è alquanto lacunosa e mancano molte didascalie. L'aspetto visivo è ok ma sarebbe stato assai opportuno che la copia restaurata contenesse dei cartelli che chiarifichino le parti mancanti. Personalmente ho dovuto consultare, dopo la visione, la scheda del catalogo per capire cosa succede.
Sapete, questi recuperi di tesori nascosti, che rispuntano all’improvviso da collezioni e cineteche, sono l’aspetto più emozionante dell’amore per il cinema muto. Tengono viva la speranza!

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