Lorenzo Bianchini
La
memoria del buio di Lorenzo Bianchini è già presente in streaming a
pagamento, in Italia e in molti paesi del mondo; ma è stata, a
Udine, una bella opportunità quella di vederlo su grande schermo –
una dimensione che esalta la sua natura di onirico e angoscioso
viaggio nel buio. Lorenzo Bianchini ha realizzato anche film di
contenuto impegno produttivo, come lo splendido non-horror L’angelo
dei muri; ma ogni tanto si concede qualche film realizzato “a zero
budget” come questo, girato
con una troupe di sole sei persone e quasi in un unico ambiente,
richiamando le sue origini di cineasta super-indipendente.
Il
film infatti si
svolge quasi interamente in una fabbrica di amido dismessa, pura
archeologia industriale, che il protagonista Paolo Rinaldi (Paolo Fagiolo), fotografo spiantato e mollato
dalla moglie per la sua ludopatia, ha appunto
un contratto per fotografare.
Ricordiamo
che gli ambienti polverosi e abbandonati sono molto presenti nei film
di Lorenzo Bianchini, e per esempio se
ne può menzionare il
perfetto impiego
in uno dei suoi film horror
più belli, Oltre il guado: è
un cinema, il suo, che ama
mettere in risalto le caratteristiche evocative del passato
possedute tanto da luoghi
quanto da singoli oggetti, con
la loro silenziosa malinconia.
In questo senso un
riferimento che balza alla memoria è Pupi
Avati.
Accade
che, ingrandendo sul computer le foto che ha preso nella fabbrica,
Paolo si accorge che a terra vi sono dei biglietti da 50 euro.
Precipitarsi di notte nell’edificio per raccogliere il gruzzolo è
un tutt’uno. Ma oltre ai soldi Paolo trova più di quanto si
aspetti: droga in sacchetti rotti e corpi di morti ammazzati. Inoltre
c’è un criminale (Marco Marchese) ferito alla gamba, sopravvissuto al regolamento
di conti, che lo minaccia con la pistola per farsi aiutare.
Portato
a casa di Paolo per fasciarsi, il bandito – azzoppato com’è –
deve patteggiare con l’altro un aiuto nella ricerca di una borsa
piena di denaro che è rimasta in loco. Così eccoli di ritorno, con
torce elettriche, nel tetro ambiente: dove è tutto un frugare,
nascondersi, ritrovarsi, sospettarsi, minacciarsi (ma anche trovare
momenti di bizzarra confidenza), con una tensione sfibrante, in una
ricerca sempre più complicata e frustrante che li porta da una
stanza all’altra, ambienti assolutamente sinistri nel loro
abbandono. E la storia si tinge di horror quando i morti cominciano
ad apparire dove non dovrebbero essere.
La
ricerca sempre più nervosa di Paolo e del bandito zoppicante diventa
così un
viaggio nell’incubo.
Bellissimo nel film l’uso
del buio, sovrano, quasi
solido; l’uso nervoso delle torce elettriche, unica fonte di
illuminazione, ridefinisce l’esistente e crea un gioco di strane
ombre. La memoria del buio
potrebbe sembrare un
Kammerspiel – ma
è tutt’altro.
Perché questo spazio chiuso sembra
aprirsi e moltiplicarsi
(“geometrie che si scompaginano”, diceva il regista in un
intervento), come un caleidoscopio spaziale. Il concetto geometrico
di tessaract è quello che si può più avvicinare a questa
concezione. L’unità di
luogo si amplia e si stravolge; quella
volatilità delle coordinate spaziali che è propria del mondo
onirico trasforma la fabbrica
in
un labirinto.
E
se questo accade allo spazio, non è troppo strano che anche al tempo
succeda la stessa cosa...
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