Miguel Gomes
Edward,
un funzionario inglese nell’Asia ancora coloniale del 1918, è
fidanzato con Molly, rimasta a Londra, che non vede da sette anni.
Quando Molly alfine lo raggiunge in Asia per sposarlo, Edward ha un
attacco di terrore del matrimonio e fugge, in preda alla depressione,
realizzando un vero “Grand Tour” asiatico, inseguito da
telegrammi della fidanzata – un viaggio segnato dalla logica della
fuga o dai giochi del destino. Birmania! Thailandia! Filippine!
Giappone! Cina! Innamorata e testarda, prepotente e ironica, Molly
segue la traccia di Edward con inflessibile determinazione. Potrebbe
essere un contrasto della viltà e del coraggio (“Ogni uomo ha il
terrore del matrimonio”, dice il buffo cugino Singleton, peraltro
convinto che Edward sia una spia). Su questa trama un po’ alla
Conrad, il portoghese Miguel Gomes costruisce un film complesso e
geniale. Grand Tour è un film bivalve, diviso in due parti come il
suo precedente Tabu: la prima metà segue Edward, la seconda Molly
(Crista Alfaiate, eccezionale. La sua risata soffiando a labbra
chiuse è un tratto distintivo memorabile del film). La malattia di
Molly introduce un elemento personale tragico.
Nell’impasto
linguistico del film, la lingua inglese parlata dai personaggi è
rappresentata dal portoghese, ma le varie voci narranti – che
integrano un racconto ellittico – parlano nelle lingue dei paesi
visitati. La cosa spiazzante è che, mentre tutta la trama si svolge
nel 1918, l’Asia in cui si muovono i personaggi è quella odierna,
con i cellulari e i motorini. In questo modo Gomes utilizza
tranquillamente materiale documentario da lui ripreso. Il passato e
il presente si toccano e si fondono, con un effetto di straniamento.
Nel
bianco e nero del film, poi, sprizzano improvvisi momenti di colore,
per lo più dedicati a spettacoli di burattini asiatici di vari
paesi, a rappresentare una profonda persistenza culturale. Che sfiora
il metafisico: i fantasmi giapponesi sentiti da Edward nel tempio,
che (dice la voce narrante) “gli raccontavano orrori in una lingua
che non conosceva”; le benevole “piccole anime” dei morti
indicate a Molly dall’ancella Ngoc nella casa vietnamita (vediamo
bolle di sapone che sciamano sulle tombe).
Grand
Tour presenta una realtà enigmatica – che è indubbiamente quella
di Gomes, grande e criptico rimodellatore dell’immaginario, ma in
verità è quella della vita. In ogni episodio se ne aprono altri
impliciti e possibili, ogni piega del racconto nasconde altre
innumerevoli pieghe. Jorge Luis Borges avrebbe capito e apprezzato.
C’è
un bellissimo uso del sonoro in tutto il film (una delle cui
caratteristiche è l’anticipazione sonora, prolungata più del
normale). A un certo punto, sull’immagine del barcone che porta
Edward febbricitante a Saigon, entra Sul bel Danubio blu, che
continua su uno stacco al traffico della città vietnamita, con un
ralenti leggero per cui la musica lo trasforma in una danza di
motorini. Inevitabile
a questo punto pensare a 2001. Il brano è stato usato molte volte,
ma una così perfetta giunzione fra la musica di Strauss e le immagini non la vedevamo
dai tempi di Kubrick.
Grand
Tour è un affascinante mix di melodramma, film esotico ironicamente
rivisto, commedia amara e apologo filosofico. Un giro dell’Asia
attraversato da accenni al dominio coloniale che sta per crollare.
Una riflessione sull’incomprensione reciproca fra Oriente e
Occidente, e in particolare sulla presunzione conoscitiva dell’uomo
occidentale (nota che né Edward né Molly comprendono la presenza
dei morti fra i vivi). Un pamphlet pessimistico sull’esistenza, non
disgiunto da quella bizzarra vena di umorismo che spesso posseggono i
pessimisti. È una delle grandi esperienze cinematografiche del 2024 – che non nasconde di essere cinematografica, come mostra – non senza un filo di ambiguità – il
finale.
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