domenica 8 dicembre 2024

Grand Tour

Miguel Gomes

Edward, un funzionario inglese nell’Asia ancora coloniale del 1918, è fidanzato con Molly, rimasta a Londra, che non vede da sette anni. Quando Molly alfine lo raggiunge in Asia per sposarlo, Edward ha un attacco di terrore del matrimonio e fugge, in preda alla depressione, realizzando un vero “Grand Tour” asiatico, inseguito da telegrammi della fidanzata – un viaggio segnato dalla logica della fuga o dai giochi del destino. Birmania! Thailandia! Filippine! Giappone! Cina! Innamorata e testarda, prepotente e ironica, Molly segue la traccia di Edward con inflessibile determinazione. Potrebbe essere un contrasto della viltà e del coraggio (“Ogni uomo ha il terrore del matrimonio”, dice il buffo cugino Singleton, peraltro convinto che Edward sia una spia). Su questa trama un po’ alla Conrad, il portoghese Miguel Gomes costruisce un film complesso e geniale. Grand Tour è un film bivalve, diviso in due parti come il suo precedente Tabu: la prima metà segue Edward, la seconda Molly (Crista Alfaiate, eccezionale. La sua risata soffiando a labbra chiuse è un tratto distintivo memorabile del film). La malattia di Molly introduce un elemento personale tragico.
Nell’impasto linguistico del film, la lingua inglese parlata dai personaggi è rappresentata dal portoghese, ma le varie voci narranti – che integrano un racconto ellittico – parlano nelle lingue dei paesi visitati. La cosa spiazzante è che, mentre tutta la trama si svolge nel 1918, l’Asia in cui si muovono i personaggi è quella odierna, con i cellulari e i motorini. In questo modo Gomes utilizza tranquillamente materiale documentario da lui ripreso. Il passato e il presente si toccano e si fondono, con un effetto di straniamento.
Nel bianco e nero del film, poi, sprizzano improvvisi momenti di colore, per lo più dedicati a spettacoli di burattini asiatici di vari paesi, a rappresentare una profonda persistenza culturale. Che sfiora il metafisico: i fantasmi giapponesi sentiti da Edward nel tempio, che (dice la voce narrante) “gli raccontavano orrori in una lingua che non conosceva”; le benevole “piccole anime” dei morti indicate a Molly dall’ancella Ngoc nella casa vietnamita (vediamo bolle di sapone che sciamano sulle tombe).
Grand Tour presenta una realtà enigmatica – che è indubbiamente quella di Gomes, grande e criptico rimodellatore dell’immaginario, ma in verità è quella della vita. In ogni episodio se ne aprono altri impliciti e possibili, ogni piega del racconto nasconde altre innumerevoli pieghe. Jorge Luis Borges avrebbe capito e apprezzato.
C’è un bellissimo uso del sonoro in tutto il film (una delle cui caratteristiche è l’anticipazione sonora, prolungata più del normale). A un certo punto, sull’immagine del barcone che porta Edward febbricitante a Saigon, entra Sul bel Danubio blu, che continua su uno stacco al traffico della città vietnamita, con un ralenti leggero per cui la musica lo trasforma in una danza di motorini. Inevitabile a questo punto pensare a 2001. Il brano è stato usato molte volte, ma una così perfetta giunzione fra la musica di Strauss e le immagini non la vedevamo dai tempi di Kubrick.
Grand Tour è un affascinante mix di melodramma, film esotico ironicamente rivisto, commedia amara e apologo filosofico. Un giro dell’Asia attraversato da accenni al dominio coloniale che sta per crollare. Una riflessione sull’incomprensione reciproca fra Oriente e Occidente, e in particolare sulla presunzione conoscitiva dell’uomo occidentale (nota che né Edward né Molly comprendono la presenza dei morti fra i vivi). Un pamphlet pessimistico sull’esistenza, non disgiunto da quella bizzarra vena di umorismo che spesso posseggono i pessimisti. È una delle grandi esperienze cinematografiche del 2024 – che non nasconde di essere cinematografica, come mostra  – non senza un filo di ambiguità – il finale.


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