venerdì 29 settembre 2023

The Palace

Roman Polanski

In tutto il suo cinema Roman Polanski ci ha detto che la malvagità e l’assurdità sono le componenti fondamentali dell’universo, con l’incubo che si insinua nella nostra realtà e la disgrega. Ora, togliete la malvagità (solo un poco) e mettete al suo posto la stupidità, e avrete The Palace, pazza cronaca del 31 dicembre 1999 e della festa di Capodanno 2000 (sotto l’ombra ingannatrice del Millennium Bug) in un lussuoso Grand Hotel svizzero. Di nuovo dopo Luna di fiele Polanski mostra una festa di Capodanno e la devastazione che lascia. Ma ora il novantenne Polanski e l’ottantacinquenne Jerzy Skolimowski, co-sceneggiatori con Ewa Piaskowska, assumono uno sguardo olimpico, cinico/clinico, sottolineando l’aspetto farsesco della vita. E’ un grottesco senza angoscia; una danza macabra, ma privata dell'elemento tragico del macabro.
Superficialmente The Palace può essere accomunato a Per favore, non mordermi sul collo e a Pirati per la sua dimensione comica; ma sarebbe più giusto richiamare l’assurdità fondamentale di Che? – dove il filo narrativo finiva per restringersi alla persona fisica di Sydne Rome (che appare, quanto invecchiata, anche qui) – se non vogliamo addirittura risalire al surreale clownesco e beckettiano di Due uomini e un armadio. Infatti, a differenza di Per favore, non mordermi sul collo e anche di Pirati (a parte il fallimento artistico di quest’ultimo), The Palace non ha una struttura narrativa forte. Al suo posto, Polanski lavora sull’estensione: è un precipitare di storie interlineate. Gli autori hanno voluto fare un film “a volo d’uccello”, un po’ come quei dipinti fiamminghi in cui vediamo una miriade di figurette e di occupazioni. Invero avrebbero potuto con facilità organizzare il film su una spina dorsale narrativa più solida, sviluppando una di queste storie; non farlo è stata chiaramente una scelta. Si può discutere se sia stata la scelta più oculata, giacché la mancanza di tale spina dorsale narrativa innegabilmente si sente; ma è anche vero che il nostro smarrimento viene trascinato e portato via nel vortice caotico, in cui il grande albergo del titolo (l’ennesima delle dimore centripete polanskiane) provvede una sorta di contenitore, anche nel senso di limite. Infatti, mentre tutto procede verso il caos, solo quella sorta di Mr. Wolf “Risolvo problemi” che è il direttore dell’hotel (Oliver Masucci)… non a caso si chiama Kopf (testa)… insieme al suo staff di martiri lotta contro l’entropia e riesce a tenere in piedi la bislacca piramide danarosa. Che non è neppure il capitalismo bensì i suoi fenomeni collaterali e deteriori: dalla truffa finanziaria (Mr. Crush/Mickey Rourke, una specie di Donald Trump con abbronzatura artificiale e parrucchino), al gangsterismo (i russi chiassosi), allo sperpero (la baronessa/Fanny Ardant con l’orrido cagnolino, il vecchio milionario/John Cleese con una moglie molto più giovane), e così via. Per inciso, John Cleese – senza fare spoiler – sul piano della mimica facciale diventerà il campione del film. Polanski è sempre stato un campione delle fisionomie, e anche qui i visi sono memorabili (ricordiamo anche Milan Peschel, con la perfetta faccia da travet bancario promosso a piccolo dirigente). Quanto alla solidarietà di classe, non basta il fatto che le cameriere cantino l’Internazionale insieme a quella strana forma di proletariato che sono le guardie del corpo dei russi.
Non manca nessuno in questa bolgia, dal pinguino che si aggira per i corridoi agitando le ali all’idraulico polacco che era il fantasma della Brexit. Ognuno ha la sua storia, o magari, come nel caso della famiglia povera di discendenti non riconosciuti da Crush, triste quartetto ceco sbattuto qua e là, la sua backstory – che emerge in modo commovente nella scena finale della telefonata. I tre sceneggiatori non dimenticano di essere polacchi: spunta il dramma di oggi quando vediamo in tv Eltsin che si dimette e un giovane Putin, già con occhi da squalo, che prende il potere. Brindisi dei mafiosi russi al nuovo leader “che si prenderà cura di noi per molti, molti anni”. E’ il trionfo della nascente cleptocrazia moscovita (l’ambasciatore: “Presto o tardi io e i miei colleghi ci divideremo la torta russa”).
La progressione verso la festa di mezzanotte è un accumulo di incidenti tale da ricordare vagamente la disastrosa inaugurazione del ristorante in Playtime di Tati. Ma c’è sempre il signor Kopf a metterci una pezza, con l’unica ricompensa del senso del dovere e di qualche bottiglietta di vodka da frigo bevuta in privato.
All’ultima Mostra di Venezia questo film ha diviso profondamente gli spettatori, fra chi diceva capolavoro e chi diceva porcheria. Chi scrive queste righe si trova nella scomoda situazione di essere in mezzo, e così, inimicus omnium. Porcheria assolutamente non è; d’altro canto, non si può dire sia in prima fila all’interno della sfavillante filmografia polanskiana. Ma invero è piacevole – e dannatamente divertente.

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