sabato 1 luglio 2023

Indiana Jones e il quadrante del destino

James Mangold

Avverto qui che la presente recensione dà per scontata la visione del film e quindi non rifugge dagli spoiler.

Interpretato da Harrison Ford ottantenne, nei cui occhi brilla un lampo di disperata tenacia che ricorda James Stewart, Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold presenta l’eroe eponimo a settant’anni (siamo nel 1969, già sappiamo che Indy è nato nel 1899, il calcolo è facile). Inizia tuttavia nel 1944, e quindi la prima apparizione di Indiana Jones, quando i tedeschi levano il cappuccio al prigioniero, ha il volto di un Harrison Ford ringiovanito grazie agli effetti digitali.
E’ ironico che un film imperniato sulla caccia a una macchina per viaggiare nel tempo – l’antikhytera di Archimede – si apra con una prima parte che viaggia nel tempo, trasportandoci nel 1944 con un Indiana Jones giovane in lotta contro i nazisti (già sapevamo che era stato nell’OSS). Steven Spielberg, produttore esecutivo con George Lucas e padre putativo, vuole dirci una cosa molto chiara, che peraltro ha ripetuto in tutto il suo cinema: la vera macchina del tempo è il cinema stesso.
Non per nulla Indiana Jones come personaggio è una raccolta di topoi che fanno rivivere una precisa finestra temporale, gli anni dai Venti ai Cinquanta del cinema d’avventura, dei serial, dei romanzi popolari e dei fumetti di Milton Caniff & C. (questo in particolare nei primi tre film; Il teschio di cristallo e il presente, com’è naturale, guardano come punto di riferimento alla prima trilogia).

Dopo la vittoriosa conclusione della parte iniziale, vero film nel film, lo stacco ai calzini appesi ad asciugare dentro un modesto appartamento – seguito dall’enunciazione shock del vecchio Indy in mutande – è un brutale salto alla triste realtà del 1969. E’ evidente che Indiana Jones non ha fatto i soldi, pur essendo venuto in contatto con tesori indescrivibili in quattro film, a onta di quelli che lo descrivevano come ladro di reperti archeologici. E’ la figura tradizionale (già nel ciclo arturiano: Lancillotto sul carretto) del declino dell’eroe. Indy vive una vita solitaria e ordinaria, anche se questa non implica l’esser diventato docile: quando va a bussare alla porta dei giovani vicini rumorosi, che stanno festeggiando l’“allunaggio”, ha in mano una mazza da baseball.
L’aspetto deprimente della sua vita si vede anche nella lezione all’università. Nel primo film, studentesse innamorate lo guardavano adoranti; nel quarto, uno studente secchione gli chiedeva bibliografia, sebbene nel momento meno adatto; in questo, vegetano sui banchi odiosi ragazzotti annoiati e ignoranti, che confondono la Siracusa di Archimede con Syracuse (Stato di New York). Per inciso, lo sguardo del film sull’America del 1969 è discretamente feroce, con il governo USA che si fa menare per il naso dal nazista Schmidt/Voller, e l’agente nera scema (FBI? CIA?) che segue le istruzioni fino a farsi uccidere. Un’America spaccata in due è mostrata plasticamente nella giustapposizione delle due sfilate, quella in onore degli astronauti e quella di protesta contro la guerra, apparentate dal fatto che in entrambe un inseguimento porta lo scompiglio (al cinema le sfilate servono a questo).

Dunque, la stanchezza dell’eroe – anche declinata sul piano fisico in una tirata memorabile durante un’arrampicata sulle rocce. La stessa stanchezza che gli fa desiderare nel finale la fuga più radicale di tutte le fughe: un auto-esilio nel passato, restando a Siracusa con Archimede, ovvero il desiderio che l'oggetto dei suoi studi si trasformi nella realtà effettuale.
Il dialogo ci dà la backstory e forse la spiegazione del declino di Indiana Jones: un lasciarsi andare: la morte in guerra del figlio (Shia LaBoeuf nel Teschio di cristallo) e la conseguente rovina del matrimonio con Marion (Karen Allen). Invero, questa scomparsa del figlio ricorda le ellissi di Salgari negli intervalli fra un libro e l’altro, in cui lo scrittore veronese si liberava della Marianna di Sandokan e della Ada di Tremal-naik facendole morire; ce n’è un esempio cinematografico analogo di Riccardo Freda tra Aquila Nera e La vendetta di Aquila Nera (a dire la verità ce n’è uno simile anche fra Aliens e Alien³, in questo caso estremamente rozzo e offensivo).
Quel che importa segnalare è che, in un film basato sul concetto di viaggio nel tempo, il desiderio (irrealizzabile e irrealizzato) di Indy di tornare indietro nel tempo per impedire al figlio di arruolarsi apparenta imprevedibilmente Il quadrante del destino a un'altra saga cinematografica: Ritorno al futuro di Robert Zemeckis: il concetto di modificare la storia per “curare” la sfiga presente. E tuttavia, qui il senso è rovesciato rispetto all’ottimismo “ingegneristico” della trilogia di Zemeckis. Come ci mostra il finale, non è il cambiamento delle circostanze che modifica i sentimenti ma il cambiamento dei sentimenti che modifica le circostanze. Il toccante romanticismo dell’amore tra vecchi alla fine de Il quadrante del destino ha un dialogo degno quasi di Robin e Marian: “Ti fa male?” – “Mi fa male tutto” – “So come ci si sente” – un bacio sul gomito: “Lì non mi fa male”.

La figlioccia Helena detta Vombato (Phoebe Waller-Bridge) ha molto di più dell’erede di quanto non l’avesse il ragazzo del Teschio di cristallo. Ha le capacità fisiche, ha una soddisfacente ambiguità morale, che naturalmente viene risolta in senso positivo (ricordiamo l’ambiguità dello stupefacente inizio de I predatori dell’arca perduta), e soprattutto ha cultura. Perché, non dimentichiamocelo, la saga di Indiana Jones è una saga della forza e del cazzotto; è una saga della resistenza e della tenacia; è una saga del saper cogliere l’opportunità (come si vede anche nel presente film, Indiana Jones è il più grande ladro di veicoli della storia del cinema); è una saga dell'autocontrollo (Sean Connery ne L’ultima crociata di fronte all’agitazione del figlio: “Conta fino a dieci – in greco”); ma soprattutto è una saga del cervello e della cultura. Per questo i giovani imbecilli che vediamo nella scena già citata della lezione all’università non sarebbero darwinisticamente adatti a sopravvivere nella più facile delle avventure di Indiana Jones. Lo è, eccome, quella che sembra l’unica studentessa brillante, e invece è Helena, venuta lì con un’agenda tutta sua.
Parlando appunto di cultura, è affascinante la decodifica del messaggio segreto sulla tavoletta, un’anticipazione dell’esibizione di cultura classica della parte finale: su questo terreno la sceneggiatura è addirittura coraggiosa, considerando il livello medio degli adolescenti americani che andranno a vedere il film. La parte finale, con il trasferimento involontario nel tempo e l’incontro con Archimede (Nasser Memarzia) è veramente molto bella, e resterà fra gli highlights della saga di Indiana Jones il concitato dialogo in greco antico fra Archimede, Indy e Helena: geniale l’immissione nel greco antico, in bocca a lei, del termine inglese internazionale “fan”.

Sebbene il ritmo sia a volte un po’ irregolare (ma a dire la verità lo era anche nello spielberghiano Il regno del teschio di cristallo), James Mangold si è calato bene nelle scarpe di Spielberg. Certo, non troviamo ne Il quadrante del destino il grande tema spielberghiano della terribilità della visione (né le sue luci bianche sparate contro l’obiettivo, se non magari un accenno in una breve scena, dove forse le vediamo solo perché ce le aspettiamo). Ma sicuramente c’è nel film quello che sta al cuore del cinema di Spielberg: il concetto di Quest.
Perché nei film di Indiana Jones l’oggetto della ricerca non è un MacGuffin, non è qualcosa che serve unicamente a mettere in moto l’avventura. Nei film di Indiana Jones la ricerca è una Quest, un processo centrato sulla conquista di un oggetto-valore che determina il senso del film (anche se poi magari verrà affidato all’ignorante burocrazia americana e – come ci mostra Spielberg in uno dei momenti più laici del suo cinema, il finale de I predatori dell’arca perduta – finirà sepolto in un deposito, cassa fra altre miriadi di casse).
E’ questo valore sacro della ricerca (c’è sempre in Spielberg un côté mistico) che ritorna, esemplificato da un titolo come L’ultima crociata, nella natura degli oggetti cercati: l’Arca dell'Alleanza, le pietre sacre a Shiva, il sacro Graal, il teschio di cristallo; il presente film poi, con uno scherzo delizioso proprio rispetto a questa ricerca, si apre sulla contesa per la Lancia di Longino – che però si rivela essere una copia moderna; mentre la vera macchina capace di dare il dominio del mondo, l’antikhytera, è lì sotto il naso dei nazisti, che non se ne accorgono (salvo il giovane Voller, Mads Mikkelsen, che diventerà il villain del film).

Nell’ultima inquadratura, il cappellaccio di Indy (oggetto simbolo, metonimico, assieme alla frusta) è appeso a una molletta sul terrazzino – e la mano entra in campo e lo afferra fulmineamente. Si chiudeva in modo simile anche Il regno del teschio di cristallo: ma quella era una orgogliosa riaffermazione di vitalità, ci diceva che Indy non era ancora pronto a passare il testimone e il cappello al figlio, che lo aveva preso. Nel presente film quell'immagine non vuol dire che Indiana Jones tornerà (ma Helena?) in azione. Semplicemente, consegna la figura all’eternità del mito.

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