sabato 27 maggio 2023

Ritorno a Seoul

Davy Chou

Anche se Davy Chou è un regista franco-cambogiano, vien da pensare che l’attuale Korean vogue, ossia il successo della Corea del Sud nel cinema e nelle serie tv, c’entri con l'interesse del pubblico per il suo film Ritorno a Seoul; che però è piuttosto un film francese, nonostante l'ambientazione.
Nata in Corea, Freddie/yeon-hee (Park Ji-min) è stata adottata piccolissima da una coppia francese. Da grande, vuol conoscere i suoi veri genitori, ed ha un rancore verso di loro; più verso il padre, che si è fatto ritrovare, che verso la madre che continua a sfuggirle. Parlando per metafora, questo film è dal punto di vista narrativo un grande campo/controcampo che ha da un lato Freddie, dall’altro la Corea, in primis i suoi familiari coreani ritrovati (pentiti di averla data in adozione). Fra di essi il padre (Oh Kwang-rok) è il miglior attore del film. Sta di fatto che il “controcampo” è più interessante e ricco di realtà umana che il lato della protagonista. Dispiace quindi che il film sia focalizzato fortemente su di lei.
Altera e distaccata (o si potrebbe dire, malmostosa) Freddie attraversa il film – che si svolge nell’arco di otto anni – con un atteggiamento ostile verso tutto, con punte di decadentismo un po’ ingenuo (l’assenzio: ombra di Des Esseintes!). Una cosa certa è che non è portata per le lingue: in sette anni e molti viaggi non impara il coreano. Dura anche con i genitori adottivi, questa figura umbratile è più trascinata dalla sceneggiatura che motore di essa: la sua rabbia si traduce in comportamenti improvvisi, ingiustificati e bizzarri, che hanno un che di intellettualistico e programmatico – ove cioè il film ricerca troppo consciamente l'effetto artistico – e ricordano l'immortale Mi fanno male i capelli” di Monica Vitti degli anni Sessanta.
La narrazione ellittica è poco equilibrata, con personaggi che spariscono in un soffio. Ci sono anche cose belle nel film; la scena dell'incontro con la vera madre, poco prima del finale, è molto ben realizzata. Ben pensata la differenza, che si legge nelle didascalie, fra quello che dice la malmostosa in francese e la forma attenuata, per cortesia orientale ma non solo, dell'amica che traduce in coreano. Una bella fotografia (di Thomas Favel) rende bene le strade di Seoul. Tuttavia, Ritorno a Seoul non si libera da un’impressione di concettoso e gonfiato.
Se i distributori avessero fatto uscire più film coreani nel corso degli anni, invece che lasciarli nella gabbia dorata dei festival, il pubblico avrebbe potuto abbeverarsi alla vera tradizione, dura, dolente, rabbiosa e sfrontata, dei grandi mélo coreani (da A College Woman’s Confession di Shin Sang-ok, 1958, a The Apartment with Two Women di Kim Se-in, 2021), senza bisogno di rivolgersi a questa mezza Corea infranciosata.

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