domenica 21 maggio 2023

Peter von Kant

François Ozon

Appena uscito dai nostri schermi il delizioso Mon crime, di François Ozon, è arrivato Peter von Kant (per la verità sono stati girati in ordine inverso). Il titolo fa risonare una campanella nella memoria? È giusto: Ozon riprende Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder (1972, tratto da un suo testo teatrale), cambiando il sesso dei protagonisti (Fassbinder parlava di un amore omosessuale femminile – pur avendo il film contenuti autobiografici – e Ozon lo porta al maschile). Il film – i cui titoli si aprono su una foto di Fassbinder – rende omaggio alla filiazione anche riportando Hanna Schygulla, che in Fassbinder era Karin, mentre qui è la madre.
Colonia 1972. Peter von Kant (Denis Ménochet) è un regista cinematografico; l’amica e star Sidonie (Isabelle Adjani) gli presenta un proprio giovane protetto (Khalil Garbia); Peter si innamora a prima vista, lo porta a vivere con sé, ma quest’amore forse è unilaterale, di certo diverso e opposto dalle due parti. Amir è un profittatore, e infine lo abbandona. Forse espressa meglio in Fassbinder, è anche una questione di classe (la proletaria Karin e la sua amante ricca). Il vecchio film e il nuovo tracciano una riflessione sulla dialettica servo/padrone (e amante/amato e artista/modello). A tutto questo assiste, muto e maltrattato (“Karl! Champagne!”), il factotum e collaboratore Karl (Stefan Crépon), la Marlene di Fassbinder, pure lui parte in causa in questa amara spirale. Sublimi le sue occhiate – è il più espressivo dei personaggi pur non pronunciando una parola per tutto il film.
Ora, Peter è un regista, mentre la Petra di Fassbinder era una disegnatrice di moda; ciò permette a Ozon una conclusione (forse) leggermente meno disperata. Perché la moda è transeunte, un abito vive lo spazio di una stagione; il cinema, benché immateriale, rimane: a Peter resta non solo il ricordo di Amir ma la sua immagine fissata su pellicola in bianco e nero. Ma all’immagine tende la mano invano. E’ davvero un miglioramento possedere l’icona, come sembra pensare Ozon? A pelle, si risponderebbe di sì; anche se in verità è un replicare il dolore. Ma questa è la contraddizione dell'amore, un cerchio che torna sempre su se stesso.
Ancora a proposito del suo mestiere di regista: nell’intervista/provino ad Amir, Peter è preda di una frenesia registica (“Coupez!”) che mostra la bulimia vitale, l’identificazione dell’occhio con quello della cinecamera, in ultima analisi della vita con l’opera. Di qui il suo pigmalionismo interessato (ma non lo era anche il Pigmalione originario?) e destinato alla sconfitta. Questa identificazione verrà messa in crisi e distrutta alla fine del film.
Fassbinder aveva fatto del suo film un Kammerspiel, dichiaratamente teatrale, entro un arredamento sovranamente camp. Lo stesso fa Ozon, in una replica peraltro originale (ivi compreso un ritmo volutamente più veloce). Nella bellissima regia, con grandi giochi di sguardi nei campi/controcampi, e un grande uso delle inquadrature frontali, e degli specchi, da notare lo splendido l’uso del colore, che fa coesistere – memorabile l’arrivo di Amir da solo – i toni rossi e caldi connessi a Peter e quelli grigiazzurri e freddi connessi ad Amir, nonché al suo ricordo (quando Peter balla da solo nella luce blu), ma anche al b/n della pellicola.
Uno dei punti di forza di Ozon, questo eccellente regista francese, è l’ottima direzione degli attori; e qui i pochi interpreti sono tutti di una bravura da mozzare il fiato, a partire da Denis Ménochet e Stefan Crépon
. Chissà se sarebbe piaciuto a Fassbinder quest’omaggio? A noi certo sì.

Nessun commento: