Woody Allen
Woody
Allen ci ha abituato negli anni all'alternanza tra film con un
contenuto più impegnativo (anche senza abbandonare la forma
commedia) e opere più leggere: come Rifkin's Festival,
che è un aereo, amabilissimo divertissement –
anche se in filigrana emergono i classici temi alleniani.
Come
spesso nel cinema di Allen, un elemento “catastrofico” (una
magia, un incidente, una visita) manda in crisi un equilibro
rivelandone la fragilità. Qui si tratta di un viaggio al Festival di
San Sebastian, dove l'intellettuale newyorkese Mort Rifkin (Wallace
Shawn) accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), più giovane di lui.
Il loro è un matrimonio che si va lentamente sfaldando. Sue –
attenzione, a partire da qui piovono spoiler – fa l'addetta stampa
ed è fin troppo attratta dal giovane regista di culto Philippe
Germain (Louis Garrel). Mort insegnava cinema in passato (“cinema
come arte”) e ora sta cercando di scrivere un romanzo, col dubbio
ricorrente di essere troppo ampolloso (turgid);
scrive e strappa, scrive e strappa, perché, dice, o sarà nella
stessa squadra di Joyce e Dostoevskij o niente. Ecco un altro
familiare tratto alleniano: l'ironia sull'artista ambizioso e
inadeguato; tenendo conto che per Allen chi è fasullo sul piano
artistico lo è anche sul piano morale (basta leggere la sua
autobiografia per vedere quanto Woody, autocritico all'eccesso, abbia
il terrore di finire entro la categoria).
Il
cinema di Woody Allen è popolato dei suoi alter ego,
giovani (Jason Biggs, Will Ferrell, Timothée Chalamet) o anziani
(Larry David) – sempre non semplici copie ma proiezioni possibili.
Qui abbiamo Wallace Shawn, pesce fuor d'acqua al Festival e
distributore geloso di battute sarcastiche su Philippe. Il film di
Allen – che famosamente preferisce suonare il clarinetto piuttosto
che andare a a ritirare un Oscar – è feroce sia col cinema d'oggi,
a partire dallo sbandieramento dell'impegno. Mort ama solo i grandi
film europei e i classici americani sono troppo ottimistici per lui;
non gli piacciono nemmeno le migliori commedie americane come Susanna
di Hawks. Questo pare contrapporsi alla concezione storica di Allen
(cfr. Crimini e misfatti),
ma non bisogna sovrapporre del tutto il personaggio e l'autore; del
resto Mort è dichiaratamente una caricatura del Pedante, e alla fine
del film ammette di essere stato troppo rigido nell'approccio.
Il
destino vuole che Mort faccia la conoscenza di una giovane dottoressa
spagnola, anche lei con dispiaceri coniugali, Joana detta Jo (Elena
Anaya): la sua anima gemella come gusti cinematografici, e innamorata
di New York dove ha studiato. Per Mort è amore a prima vista, e
inizia un silenzioso corteggiamento. E' stata rilevata la (voluta)
mancanza di physique du rôle
del bravissimo Wallace Shawn nella parte del maturo innamorato; non
tanto per l'età in sé (in fin dei conti anche Woody ha sposato una
donna assai più giovane) quanto per l'aspetto che ricorda una
vecchia tartaruga saggia. Direi che in questo è da vedersi un'ironia
un po' malinconica sulla forma
mentis maschile, èer
la quale la possibilità di una storia con una donna giovane appare
sempre come una possibilità concreta: gli uomini si vedono “da
dentro”. Peraltro, come sentiamo in questo film, “Da quando le
relazioni sono razionali?”; e Woody Allen in tutto il suo cinema ci
ha ricordato come sia capricciosa La dea dell'amore
(Mighty Aphrodite).
Ricorre
nel cinema alleniano l'idea della fuga: un “Imbarco per Citera”
(o Manhattan!) come negazione della disamata realtà. Rifkin's
Festival si costruisce
su una simmetria:
Joana è un sogno per Mort, ma anche lui, gentile intellettuale
newyorkese fino al midollo, è – in forma meno definita sul piano
dei sentimenti – un sogno per lei. E poi, quale raddoppiamento
parodistico, “copia bassa”, Philippe è un sogno per Sue, sebbene
i progetti di quest'ultima col più giovane tombeur de
femmes non ci sembrino proprio
fondati sulla roccia. E' anche da notare che Joana non è
scandalizzata dai sentimenti inespressi ma chiarissimi di Mort; il
suo “Non credo che sarebbe una buona idea”, al telefono, alla
proposta di rivedersi l'ultimo giorno, non è un educato rifiuto ma
piuttosto la classica “serena rinuncia”; e all'idea di un viaggio
un giorno o l'altro a New York per “un hamburger alla Minetta
Tavern”, la sua risposta un po' triste è “Who knows?” – e la
mdp indugia sul suo primissimo piano, con un grande pezzo di
recitazione muta di Elena Anaya. Siamo in un contesto čechoviano; e
non lo dico per la suggestione di Wallace Shawn che ha interpretato
uno splendido Zio Vanja cinematografico per Louis Malle, ma perché
Čechov è uno dei numi ispiratori di Woody Allen in tutto il suo
cinema. Autunno che arriva, speranze e rinunce, ricordi e sogni.
Sogni...
Eccoci all'aspetto più appariscente di Rifkin's Festival:
la sua intelaiatura metacinematografica. Allen fa sì che Mort riveda
se stesso, le sue donne, i suoi conoscenti, la sua situazione,
le sue paure, in una serie di divertentissime parodie in b/n di
grandi testi cinematografici (occorre ricordare qui che la parodia è
in primo luogo un atto d'amore?) – iniziando con l'Orson Welles di
Citizen Kane, l'unico
autore americano, con un tipico edificio del Bronx dentro la palla di
vetro e con Rose Budnick, amica dei genitori, al posto di Rosebud.
Questi frammenti entrano nel racconto o come sogno o come rêverie
(giustamente la parola francese
è connessa al sogno). Il b/n non è solo per ovvia aderenza al testo
imitato ma per marcare un mondo alternativo in contrapposizione alla
realtà;: nel cinema di Woody Allen la bellezza e l'arte sono la
cosa vera.
Questi
brani offrono un divertimento doppio: per l'immissione incongrua di
Mort e degli altri personaggi, compresi quelli della sua memoria,
nell'universo di Fellini o di Bergman e per l'acribia con cui Allen
riproduce gli stilemi dei maestri. Per fare un solo esempio, vedi i
primissimi piani drammaticamente ravvicinati nella parodia del
bergmaniano Persona (per
inciso, il discorso del “silenzio di Dio” produce la battuta più
spassosa di tutto il film). Se solitamente i frammenti riflettono
deliziosamente le circostanze vissute da Mort (l'idea di un ménage
á trois che a Sue andrebbe
benissimo gli fa vedere la moglie, Philippe e se stesso in una
celebre scena di Jules e Jim),
il più geniale è quello da L'angelo sterminatore di
Buñuel, dove la parodia riflette non solo la situazione ma la sua
realtà più profonda: l'impossibilità di uscire dalla stanza, che
blocca Mort e Joana sulla soglia, è l'ammissione inconscia
dell'impossibilità oggettiva di concretizzare quella “fuga
d'amore” che Mort ha preso in considerazione.
Alla
fine di Rifkin's Festival compare,
senza sorpresa, la partita a scacchi con la Morte de Il
settimo sigillo, con cui Woody
ha a che fare fin dai tempi di Amore e guerra
(1975); e in risposta all'autocritica di Mort sull'essere sempre
stato uno snob pedante, la Morte (Christoph Waltz) offre una ricetta:
lavoro, famiglia, amore – “the usual bullshit”, dice, ma
funziona (qui sale nella memoria, per esempio, Radio Days).
Più qualche consiglio dietetico per vivere più a lungo e rimandare
l'incontro. Tanto, Woody ce l'ha sempre detto nei suoi film, è un
appuntamento inevitabile. Tanto vale trascorrere la vita che ci è
concessa senza snobismi e senza patemi.
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