Charlie Kaufman
Per
parlare di un magnifico film criptico e affascinante (e
post-lynchano) quale Sto pensando di finirla qui
di Charlie Kaufman (I'm Thinking of Ending Things,
su Netflix), tratto dal romanzo di Iain Reid... per parlarne conviene
partire dal cane Jimmy (il che conferma che i cani sono le creature
più utili al mondo).
Nell'inquietante
visita di Jake e Lucy (Jesse Plemons e Jessie Buckley) alla fattoria
dei genitori di lui durante una tempesta di neve, prima di incontrare
i due genitori (David Thewlis e Toni Collette) Lucy nota che la porta
della cantina è graffiata. Jake dice che è stato il cane. Ma perché
questo cane di cui si parla non è già venuto ad accoglierli e
annusarli? Solo in quel momento lui appare (scuotendosi un po' troppo
a lungo perché tutto sembri normale) come se fosse stato evocato.
Più tardi lei lo accarezza (ha appena detto “Dov'è Jimmy?”) ma
non lo vediamo inquadrato; in compenso lo vediamo in un quadro appeso
lì. Ancora più tardi: premesso che Lucy di continuo dice che
dovrebbero tornare presto in città e Jake di continuo risponde “Ho
le catene”, all'ennesima ripetizione si sente un rumore di catene
(l'attributo dei fantasmi!) e vediamo il cane che si scuote,
producendo assurdamente quel rumore con il collare. Ce n'è
abbastanza per sospettare che Jimmy venga evocato dal pensiero...
come tutto quello che vediamo nel film (pure lo spostamento finale al
liceo ha luogo, come ci viene sottolineato, su una strada
impossibile).
E a questo punto devo pagare un debito rendendo omaggio a una splendida
recensione di Virginia Campione su Cinematographe.it, a cui rimando
per ulteriori (e più acute) notazioni.
Ora, “evocare”
significa etimologicamente “chiamar fuori”, far uscire: ma uscire
da dove? In questa istanza, da dentro, vale a dire da Jake. Quando
Lucy dice, nella voce over che accompagna il film, “Non so più chi
sono in questa storia, dove finisco io e dove inizia Jake”, va
presa in modo letterale.
Per questo Lucy
possiede una sorta di inconsistenza ontologica. Nel corso del film,
senza che né lei né alcuno faccia caso a queste incongruenze, il
suo nome cambia più volte (Lucy, Lucia, Louisa... però non accetta
Ames). Il suo campo di studio o lavoro cambia egualmente (medicina,
fisica, geriatria, critica cinematografica, ma è anche cameriera).
Il campo artistico, alla stessa stregua (poetessa, pittrice). Quando
lei pensa (voce over) Jake sembra sentire, distrattamente, cosa sta
pensando. Viceversa, quando è con Jake alla fattoria e risuona forte
il litigio dei due genitori nell'altra stanza, sicché poi il padre
ricomparirà incerottato, lei non sembra sentire nulla. Ultimo
esempio, pensiamo alla proposta insensata di fermarsi alla gelateria
Tulsey Town (puro David Lynch) nel bel mezzo della tormenta: nel
dialogo la paternità di questa proposta prima è di Jake, poi era di
Lucy, con totale imperturbabilità.
Si è parlato nella
critica di Lucy come “proiezione” di Jake, ma il termine mi
sembra un po' troppo connotato in senso illusorio per dar conto
dell'autonomia del personaggio nel film, fortemente focalizzato su di
lei. Perfino inizia con lei, che sta attendendo Jake, e pensa
ossessivamente di “finirla qui” con questa relazione. Sarebbe
forse meglio parlare di sdoppiamento, o fantasma: Lucy vive dentro
Jake come dentro Norman viveva Mrs. Bates. Di questa sua realtà
vicaria, si direbbe che sia ignara.
La
poesia che lei recita in viaggio, Ossa di cane,
parla dell'orrore di tornare a casa (Jake: “E' come se parlasse di
me”). Nondimeno – falso passaggio dalla meditazione poetica alla
vita quotidiana – per tutto il film lei insiste che tornino presto
a casa (Jake, lo sappiamo, risponde che ha le catene). Una volta
partiti dalla fattoria, Jake equivoca un paio di volte “casa” nel
senso di tornare alla fattoria. Perché la casa è quella
dell'infanzia di Jake e tutto nasce dall'evocazione di Jake.
Diabolicamente intessuto di un'infinità di riferimenti e citazioni
ora enunciati ora nascosti (è un Finnegan's Wake
cinematografico), Sto pensando di finirla qui
è una distorta e malinconica messa in scena di fantasmi (come è un
balletto di fantasmi quello dei loro Doppelgänger
giovani nei corridoi del liceo).
Per
questo tutto il film è attraversato da un senso di smarrimento e di
minaccia. Già fin dall'inizio, nonostante la sua ostentata
gentilezza, il massiccio Jake appare oscuramente minaccioso, per
effetto della continua riflessione di Lucy sul fatto di volere
rompere la relazione. Nel prosieguo mostra una carica nascosta di
violenza sempre pronta a esplodere (nota anche come le gelataie del
Tulsey Town abbiano paura di lui). Ancor più, nella visita alla
fattoria un elemento di minaccia, di realtà distorta e isterica,
accompagna i due bizzarri e amichevoli genitori – tanto da far
pensare alle famiglie folli di Tobe Hooper come in The
Texas Chain Saw Massacre (Non
aprite quella porta). Non manca
la paura di scendere in cantina, che è un luogo deputato
dell'horror, bene sintetizzata nell'inquadratura di Lucy in
controluce al sommo delle scale. Spero non sia troppo freudiano
(anche se nel film Lucy parla con disprezzo di “Freudian
crap”) rievocare la
tradizionale analogia anche filmica della cantina con l'inconscio.
Poi, dopo un periodo che definirei di “realismo malato”,
costellato di segni ambigui e perturbanti, comincia la distorsione
temporale. Il primo indizio, quasi inavvertibile, è quando il padre
con un singhiozzo dice della madre lì presente “Mi manca tanto!”
In seguito i due genitori appaiono e riappaiono in differenti età.
Il tempo si torce e ritorna su se stesso.
Bisogna dire che il
film non è allusivo, anzi esplicita nel dialogo il proprio
fondamento “filosofico” (che, inutile dirlo, si può collegare a
tutta la filmografia di Charlie Kaufman). L'assurdità di questi
incroci temporali trova una base nella meditazione di Lucy sul tempo:
noi non ci muoviamo avanti nel tempo come si pensa; al contrario,
“siamo immobili... e il tempo ci attraversa”, come un vento
gelido che ci lascia congelati. E ancora (Jake): non esiste la realtà
oggettiva, come non esistono fuori dal nostro cervello il tempo o i
colori. Esiste la morte – ed è per questo che l'uomo ha inventato
la speranza (un concetto vagamente leopardiano).
Non
ce ne rendiamo conto fino alla fine, ma stiamo assistendo ai
pensieri, alle fantasie e ai ricordi di un uomo morente – cosicché,
con un colossale shifting
di focalizzazione del film, ci rendiamo conto che il protagonista non
è Lucy ma Jake. Il vecchio bidello (Guy Boyd) che si aggira per i
corridoi vuoti del liceo è il Jake fallito della realtà. E Lucy è
un incontro del passato che non si è mai concretizzato in un
rapporto. Jake si è creato una fantasia. Al contrario di Se
mi lasci, ti cancello
(sceneggiato da Kaufman), qui è “Se mi lasci, ti ricreo”.
Si
potrebbe anche supporre che le varie occupazioni di Lucy
rappresentino desideri falliti di Jake giovane per la vita futura.
Lui da giovane dipingeva; si intende di cinema e legge Pauline Kael
(evidenza del libro in camera sua, ed è della Kael il discorso su
Gena Rowlands che sentiamo da Lucy); ama la poesia (Ossa di
cane proviene in realtà da un
libro in camera sua); alla fine del film il maiale parlante gli dice
“tu che sei un fisico”, il che corrisponde a Lucy in una delle
sue “incarnazioni”.
Così,
il film è una triste riflessione non sull'accaduto ma sull'accaduto
mancato. Lo enuncia il folle
colloquio di Lucy col bidello: lei gli parla del suo boyfriend appena
entrato nel liceo ma non sa descriverlo, perché “è stato tanto
tempo fa”; parla del loro primo incontro dicendo che non ha avuto
un seguito (“non-interazioni”). Gli incontri romantici felici
avvengono solo al cinema: nel film “di Robert Zemeckis” guardato
dal bidello in una scena.
Il doppio immaginario
di Jake da giovane viene ucciso dal se stesso vecchio in uno scontro
al coltello che fa pensare a West Side Story ma che si risolve
in forme simboliche reminiscenti del teatro kabuki (i fazzoletti
rossi che simboleggiano il sangue). Poi il vecchio bidello sembra
morire nella sua auto – “Vieni, seguimi”, gli dice il clown
cartoonistico della pubblicità della catena Tulsey Town – e il
maiale fantasma lo accompagna, nudo come alla nascita, in un
auditorium. Qui Jake (ma ora non è Guy Boyd, è Jesse Plemons,
truccato da vecchio in modo grottesco) fa il suo discorso di
accettazione di un premio mai ricevuto e canta la sua canzone davanti
a una platea di zombi, fra i quali spicca una vecchia Lucy. Peraltro
anche il suo discorso finale e la sua canzone sono frutto di
un'introiezione di esperienze di spettacolo, A Beautiful Mind e
Oklahoma.
Tutto questo è una
costellazione di pensieri in una mente arrivata alla fine. Noi siamo
soli davanti al mare di nebbia del mondo, come il Viandante di
David Caspar Friedrich di cui, come si vede all'inizio, Lucy tiene
una riproduzione in una casa mai esistita.
Nessun commento:
Posta un commento