domenica 23 settembre 2018

Un affare di famiglia

Kore-eda Hirokazu


Un affare di famiglia è un titolo un po' anodino per Shoplifters (“I taccheggiatori”) ma, come è stato osservato, ha il merito – voluto o casuale che sia – di riprendere il termine “famiglia” presente nel titolo originale giapponese Manbiki kazoku (“Una famiglia di taccheggiatori”); e così riporta alla luce il tema cardine di Kore-eda Hirokazu, la famiglia appunto. Su di essa Kore-eda riflette in tutto il suo cinema, dal bellissimo Little Sister al meno bello Father and Son, dai due grandi “film gemelli” Still Walking e Ritratto di famiglia con tempesta allo sconvolgente Nobody Knows.
Che cos'è la famiglia? Come funziona e come la si può definire? Per Kore-eda la famiglia è una tessitura di rapporti umani cementata dall'interazione e dalla memoria, più che dalla consanguineità; e più che mai in questo ultimo film Kore-eda ci dice con assoluta radicalità che la famiglia è una scelta. Qui si parla (va da sé che la presente recensione va letta dopo la visione) di una famiglia che vive nell'illegalità: integrano la pensione della nonna – da continuare a riscuotere anche dopo che è morta – e il magro stipendio della madre Nobuyo con i furtarelli nei negozi compiuti dal padre Osamu e dal bambino Shota (la figlia maggiore Aki ha come mestiere di “scuotere le tette” in un locale erotico ma i suoi guadagni sono per lei). Solo alla fine del film ci viene rivelato che in realtà questi personaggi non sono imparentati; e tuttavia “fanno famiglia” molto più di tanti altri. “Se sei stato tu a scegliere – sentiamo – il legame è più forte”. Per inciso, ho avuto la fortuna di poter vedere il film in originale sottotitolato, sfuggendo alla deprecabile pratica del doppiaggio.
Dunque al centro c'è l'opposizione fra due realtà: l'ufficialità “anagrafica”, che può contenere, come nel presente film, la freddezza e l'abuso, e il calore di un comunità formatasi per il gioco del caso e della scelta (non è dissimile il problema che angosciava i protagonisti di Father and Son). Più ancora che di famiglia formale e famiglia sostanziale, potremmo parlare, con una terminologia di tipo religioso, di famiglia morta e famiglia vivente.
In questo film quietamente drammatico è la prima a trionfare mentre la seconda resta, peggio che negata, sconosciuta a tutti. Vedi le figure dei due giovani poliziotti che già dalla fisionomia comprendiamo essere profondamente umani – eppure senza saperlo sono agenti del male mentre sono convinti di essere agenti del bene. Nota in margine: già nel superbo The Third Murder, inedito in Italia, avevamo intuito in Kore-eda un sottile elemento dostoevskiano.
Al cuore del film sta la descrizione “impressionistica”, a calde pennellate, della famiglia vivente. Guardiamo la scena in cui Osamu e Shota trovano la piccola Juri lasciata da sola in un appartamento e impietositi la portano via: dopo il campo/controcampo in soggettiva attraverso la finestra dell'appartamento (lo sguardo è imprigionato e costretto in inquadrature pesantemente incorniciate dalle imposte), si passa alla libertà dell'occhio nella casa disordinata e affollata della famiglia. Dove l'accumulo di oggetti e persone non è solo un dato “sociologico” ma rappresenta plasticamente quella condizione di calore umano rappresentato (e, inutile dirlo, si contrappone all'ordine spaziale più “astratto”, con un maggiore ordine e una prevalenza del vuoto, che siamo abituati a vedere nelle case del cinema giapponese).
Desideravo mostrare la poesia degli esseri umani”, ha detto Kore-eda; come del resto tutto il suo cinema, Un affare di famiglia sviluppa una narrazione di commovente autenticità e sensibilità. Non che naturalistico, Kore-eda è addirittura pudico nell'esprimere la condizione di bambina abusata di Juri attraverso il dialogo e altre spie indirette (il modo in cui all'inizio ripete ossessivamente Gomen nasai, “Chiedo scusa”). C'è il solito umorismo gentile in filigrana; e si può notare una maggiore franchezza sul piano sessuale (anche correlata a questa situazione di affollamento senza privacy). Inutile dirlo, sono splendide le interpretazioni. Citando solo i più famosi: la sublime Ando Sakura (Nobuyo), Lily Franky (Osamu) e Kiki Kirin, recentemente scomparsa, che illumina il ruolo della nonna.
In correlazione al tema della famiglia, Kore-eda è un regista della memoria. Riflette su come la nostra percezione degli altri, in particolare dei familiari, si fissi in base alla nostra storia, che pesa sulle nostre emozioni e su come ci rapportiamo al mondo (“Se uno cresce pensando di non essere stato voluto, non può diventare una persona amorevole”). In questo senso, nella famiglia del film gli adulti sono più sicuri, una personalità già fissata li indirizza e li dirige. Chi si inserisce facilmente è la bambina di cinque anni, Juri/Yuri/Rin (la pluralità di nomi rispecchia la sua condizione mutevole), perché la sua memoria è più plastica: può mettere da parte gli abusi sofferti dalla famiglia “vera” e lasciare che si annullino nel flusso del presente; è il presente che nella sua felicità è creatore di memoria (il disegno della gita al mare). Mentre il personaggio più angosciato è il ragazzino Shota, che attraversa quel periodo preadolescenziale – anche sessualmente, con le prime erezioni e i primi desideri – in cui si forma la personalità.
La narrazione di Kore-eda è, qui come altrove, di tipo carsico, con autentiche emersioni del racconto. Delle battute assumono il loro vero significato magari molto più tardi nel film. Ovviamente tutti i film hanno una backstory destinata a esplicitarsi nello svolgimento; sempre, in questo grande autore, ma in particolare in Un affare di famiglia il modo in cui essa emerge è un capolavoro. Sotto ogni personaggio del film c'è una storia che ne richiederebbe un altro; anche quella di personaggi in teoria minori, come la giovane Aki, ci viene rivelata di scorcio con effetto indimenticabile.
Nella maggior parte dei suoi film recenti Kore-eda è (definizione un po' meccanica ma non ne trovo un'altra) non-drammaturgico. Il quieto agire dei personaggi, l'accumularsi di fatti quotidiani in un nocciolo di tempo: Kore-eda delinea la fluidità della vita quotidiana senza preoccuparsi della classica struttura drammatica per cui a una crisi segue uno sviluppo nello svolgimento (altro motivo per non connetterlo a Ozu, come spesso si fa, bensì a Naruse). In Un affare di famiglia, questi “noccioli di tempo” corrispondono al momento centrale, e prevalente, del film; mentre si ritrova l'elemento della svolta drammaturgica, parzialmente all'inizio (la decisione di prendere con sé la bambina) ma soprattutto nella soluzione, che rappresenta il classico punto di crisi (aperto dalla fuga di Shota) da cui procede il dénouement. Così, Un affare di famiglia si avvicina più a Nobody Knows (che era basato su un fatto di cronaca) che a Little Sister.
E' una crisi destinata a una ricomposizione? Kore-eda ama le conclusioni aperte, che del resto procedono come una necessità dal suo modo di fare cinema. Questo però può forse essere valido per il bambino Shota ma non lo è rispetto alla piccola Rin – il cui primissimo piano finale, con l'impassibile segretezza infantile sul volto, possiede una disperata oggettività per la quale ci si sente di richiamare il rosselliniano Germania anno zero.

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