Riemerso
dalle sabbie del tempo, The Other Side of the Wind di Orson
Welles (il regalo e vorrei dire il
film numero uno della Mostra di Venezia 2018) è un'opera
sconvolgente anche per la carica di novità che porta nel panorama
wellesiano. Com'è noto, il film, rimasto incompiuto, fu girato da
Welles a pezzi e bocconi fra il 1970 e il 1976, ed era rimasto
invisibile (salvo poche immagini) per un complicato problema
di
diritti. Ora esce in un restauro curato da
Frank Marshall e F.J. Rymsza, con Bob Murawski a capo del montaggio.
Sceneggiato
da Welles con Oja Kodar, sua compagna e collaboratrice, The
Other Side of the Wind ci appare
come un film-testamento, che ci costringe a ridefinire l'immagine di
Welles e che nello stesso tempo è assolutamente suo.
Racconta
l'ultima giornata di vita del regista Jack Hannaford (interpretato da
John Huston), un macho donnaiolo e bevitore, che ha una pulsione
omosessuale nei confronti di un giovane attore suo protetto (Bob
Random), il quale lo ha abbandonato lasciando il set del suo ultimo
film. Definitivamente respinto, Hannaford muore schiantandosi con
l'auto, forse suicidio, forse incidente.
L'apertura
riprende immediatamente il classico concetto wellesiano
dell'inchiesta, la ricerca della verità su un morto, da Quarto
potere in poi, incrociandolo in
modo fulminante con il ricordo della morte di James Dean (foto
dell'auto sfasciata; voce narrante: “That's the car”). Vediamo
quest'ultima giornata, il cui clou è una festa alcoolica in una
villa, in parallelo con la proiezione di frammenti del film di
Hannaford, che s'intitola anch'esso The Other Side of the Wind.
E' interessante che Hannaford sia una figura di regista molto
americana, parodia del machismo alla Hemingway di vari registi fra
cui Huston stesso, mentre il film-nel-film è di ambientazione
americana ma di estetismo europeo.
Non
mancano molti addentellati autobiografici relativi a Welles stesso
(anche se lui si prendeva la pena di smentirlo). Non solo la
situazione precaria di Hannaford nel panorama
hollywoodiano rimanda a quella di Welles, ma anche molti tratti del
carattere. Il lato omosessuale di Hannaford invece non sembra
pertinente alla vita di Welles, se non nei limiti di quell'elemento
di omofilia presente nel rapporto giovane/vecchio e maestro/allievo
(non voglio dire con questo che Falstaff pensasse di portarsi a letto
il principe Hal!); Welles è conscio di come il machismo presenti un
sottofondo omosessuale.
E'
facile riconoscere in The Other Side of the Wind,
specie nella parte della festa alla villa (che – testimonianza di
Oja Kodar – fu realizzata con mezzi minimi) quell'elemento di
astrazione che trasforma la mancanza di mezzi in autosufficienza
artistica, che ben conoscevamo per esempio dal televisivo Fountain
of Youth ma anche da Storia
immortale.
Su
entrambi i piani dell'opera ritorna il barocchismo di Welles. Nel
film, basta pensare alla presenza dei nani ubriachi e sghignazzanti;
nel film-nel-film, all'inquadratura del trio con le maschere antigas
che si voltano all'unisono a osservare, simili a grandi insetti (come
usa le maschere Welles, da Mr.
Arkadin
al frammentario Il
mercante di
Venezia!).
Di fronte al “risorto”
The Other Side of the Wind si
pone naturalmente un problema filologico, dove la questione
principale è quella del montaggio. Nella scena del caotico, isterico
viaggio di varie auto e un pullman verso la villa dove si terrà la
festa, il montaggio estremamente frazionato, “a lampi”, dissolve
la struttura narrativa in pennellate, tasselli, come un puzzle, ben
diversamente da quanto conoscevamo del tardo periodo di
Welles, nei frammenti degli incompiuti The Deep e The
Dreamers. Il lavoro di
ricostruzione del film è stato compiuto su un migliaio di bobine di
girato. Ora, per l'altro grande film incompiuto di Welles,
il Don Quixote,
si sa che le indicazioni di Welles sulle bobine delle riprese erano
estremamente criptiche; sarebbe interessante sapere com'erano quelle
del presente film. D'altro canto, il bel documentario (anch'esso
visto a Venezia) They'll Love Me When I'm Dead di
Morgan Neville, dedicato appunto al tentativo di Welles di realizzare
The Other Side of the Wind,
avvalora l'ipotesi che questo montaggio sia una scelta effettiva del
regista (testimonianza che tagliava la pellicola in pezzi sempre più
piccoli). Il concetto è di dissolvere la realtà nella mancanza di
un punto di vista oggettivo: “attraverso tutti quegli obiettivi”,
come sentiamo nel film, vediamo solo ciò che è filmato dai
giornalisti. Tutto l'impianto di The Other Side of the Wind
avvalora l'idea di un partito preso di Welles per rivoluzionare anche
l'immagine di se stesso, con questo film che voleva essere il suo
comeback in
una Hollywood pronta ad
ammirarlo a gran voce ma assai meno ad aprire i cordoni della borsa
(c'è un noto aneddoto su Spielberg, di cui l'uomo dovrebbe
vergognarsi finché campa).
Per questi motivi,
anche se evidentemente non sapremo mai come Welles avrebbe montato
definitivamente il film, e anche se siamo tuttora in attesa di studi
storico-filologici che certo non mancheranno, possiamo assumere che
anche per la parte del viaggio verso la villa la presente versione di
The Other Side of the Wind sia sostanzialmente fedele alla
concezione wellesiana.
Vale
la pena di aggiungere una considerazione. The Other Side of
the Wind è attraversato da un
elemento ironico, che riguarda sicuramente il film-nel-film, ma che
ci stimola a ipotizzare che Welles avesse voluto mettere in scena un
elemento di imitazione non scevra d'ironia anche rispetto al giovane
cinema americano. Tanto più che The Other Side of the Wind
è, fra l'altro, anche una
spiritosa riflessione del vecchio Welles sul montaggio – cosa che
lo accomuna, paradossalmente, a F for Fake
e a Filming Othello.
Ma
se parliamo di ironia bisogna intendersi. Tutto è doppio in questo
film sul piano dell'adesione,
ossia del punto di vista dell'autore. Voglio dire che nel
film-nel-film c'è la sottile parodia di un modo di girare che è
quello del cinema d'arte europeo (in primis
si può fare il nome di Antonioni, che poi viene sbeffeggiato nel
dialogo insieme ad altri registi e uomini di cinema – e conviene
ricordare qui il trait d'union
di Antonioni con l'America che è Zabriskie Point);
ma non è parodia volgare che si chiude in se stessa. Il
film-nel-film è anche la concretizzazione di grumi, ossessioni e
terrori
wellesiani; c'è un gusto e una necessità del girare che non è solo
satira. A costo di scandalizzare qualcuno, mi sento di paragonare il
procedimento a quello de Lo straniero:
voluto fumettismo (“puro Dick Tracy” , diceva Welles) e insieme
adesione divertita allo stesso. Welles, autore eminentemente barocco,
è dialettico nella sua ironia. Nelle belle immagini del
film-nel-film – un interminabile inseguimento amoroso fra Oja Kodar
e Bob Random – ritorna con forza il tema profondamente wellesiano
del movimento cieco, quel tema del labirinto
(qui ideale e non spaziale) che informa tutto il cinema di Welles fin
da prima che andasse a Hollywood, nell'esperimento giocoso
pre-hollywoodiano di The Hearts of Age
del 1934 e poi nell'operazione intermediale di Too Much
Johnson del 1938.
Certo
l'ironia di Welles in questo film non perdona a nessuno (tanto da
richiamare alla memoria il suo romanzo satirico Une grosse
légume, uscito solo in
francese). The Other Side of
the Wind è un
Giudizio Universale. Sul cinema, come si è detto; sui produttori
hollywoodiani, con un riferimento diretto e personale che non era
fatto per attirargli amicizie; sui critici cinematografici, in modo
particolarmente spietato, nel folle viaggio verso la villa; e anche
sui propri amici. Come il fedele sodale Peter Bogdanovich, autore del
fondamentale libro-intervista Io, Orson Welles,
che coraggiosamente si auto-interpreta sotto il nome di Otterlake e
viene chiamato “Otterlake, il registratore umano” – al che lui
con amarezza: “Quello io sono”. Non manca – dobbiamo
l'informazione al già citato They'll Love Me When I'm Dead
– una beffa alquanto feroce
rispetto al suo legame con l'attrice Cybill Shepherd. Nella scena del
viaggio, poi, uno degli intervistatori viene messo giù dall'auto
senza troppi complimenti – ed è interpretato da Joseph McBride, un
altro dei grandi estimatori di Welles: altro esempio di ironia
sadomasochista.
La
relazione amorosa di Welles con la giovane Oja Kodar lo portò a una più franca
apertura alla sessualità, di cui già offrono testimonianza The
Deep e F for Fake
e in modo definitivo questo film (nel modo in cui in The
Other Side of the Wind
Welles esibisce la splendida
nudità di Oja Kodar è facile vedere l'orgoglio dell'innamorato).
Non stupisce quindi l'elemento apertamente erotico: basta citare la
grande scena di sesso nell'auto fra Oja Kodar e Bob Random; o la
ragazzina che succhia il ghiaccio attraverso il frammento di vestito
che Oja Kodar le ha tirato e che si è messa in faccia – immagine
molto erotica ma in modo inquietante, come in Balthus.
Si crea un interessante
doppio livello fra la felicità della relazione di Welles con questa
bellissima donna nella vita e quel tema dell'irraggiungibilità della
donna che attraversa tutto il suo cinema, di cui è manifesto La
signora di Shanghai, e che ritorna anche qui.
Infatti
si ritrovano in The Other Side of
the Wind tutte le
ossessioni wellesiane, e in primo luogo la connotazione minacciosa
della donna. Oja Kodar (che nel film non ha nome) è, tanto nel film
quanto nel film-nel-film, un'indiana americana, portatrice di una
femminilità primitiva e irraggiungibile, connotata in modo
aggressivo sia nel film (le fucilate) sia in tutto il film-nel-film
(le forbici); l'angoscia di castrazione che caratterizzata qui il suo
personaggio la accomuna all'eterna schiera delle donne
pericolose di Welles. Idem, in
modo più sfumato, per la diva Zarah Valeska (interpretata da Lilli
Palmer), che compare come istanza giudicante, e in un certo senso
immagine della morte. Mentre invece ciò non vale per un altro
personaggio femminile, la “famosa critica” Juliet Rich (Susan
Strasberg), parodia della detestata critica Pauline Kael, perché
questo è un regolamento di conti wellesiano (completo di sberla) che
la rende solo ridicola.
E' centrale in The
Other Side of the Wind il tema del tradimento del giovane
verso il vecchio, un caposaldo di Welles (pensiamo solo a Falstaff);
né manca un discorso sul rapporto schiavo-padrone, altro tema
wellesiano (ombra di Quarto potere!). Ma anche quello,
simmetrico e contrapposto, del padre divoratore. Hannaford è un
Falstaff capace di diventare Macbeth; e, come si è detto, in questo
panorama psichico aggrovigliato possiamo inserire un tradimento,
esterno al film, del padre contro il figlio con la parodia di Peter
Bogdanovich.
Parimenti The Other
Side of the Wind presenta in filigrana le angosce di
Welles su se stesso. Quelle relative all'incompiutezza di cui veniva
spesso accusato, nei problemi di Hannaford: “Non è la prima volta
che non finisco in tempo” (siamo in piena autobiografia
wellesiana). Hannaford gira troppo materiale, sentiamo, e va avanti
all'impronta senza sceneggiatura. E' un'accusa che feriva Welles, e
che lui respingeva – ma è tipico di Welles mettere in scena nei
suoi film, quasi inconsciamente, la sua parte oscura e i suoi sensi
di colpa: vedi, per fare un solo esempio, come si proietta nel
protagonista (Tim Holt) de L'orgoglio degli Amberson.
E poi la difficoltà
nel rapportarsi agli altri, al di là dell'innegabile fascino. Dice
di Hannaford la critica Juliet Rich: “Ciò che crea, distrugge”.
Hannaford tiene un'autentica corte attorno a sé e da essa viene
abbandonato nel finale. La caduta del regno di Hannaford! Non
dimentichiamo che Welles, attore e regista shakespeariano per
eccellenza, della caduta dei regni ben se ne intende.
Ritorna in modo
impressionante in The Other Side of the Wind quella
pulsione di morte che caratterizza il cinema di Welles. Occorre
ricordare come spesso i suoi film partano “a ritroso” dalla sua
morte, da Quarto potere all'aereo vuoto di Mr. Arkadin
all'aggiunta muta a Shakespeare in Otello? O ancora, come sia
una sua costante quella di invecchiarsi nei film, che inizia fin da
The Hearts of Age quando aveva diciannove anni?
E al cuore di The
Other Side of the Wind sta l'ossessione principale di
Welles: il senso del cinema, il senso del filmare. Ecco allora che la
sua militanza shakespeariana di tutta la vita gli fa riprendere con
citazione esplicita (“Il nostro spettacolo ora è finito”) il
personaggio di Prospero, un Prospero stanco e decaduto. In relazione
alla battuta shakespeariana “This rough magic I abiure”,
Hannaford chiede scherzosamente a Otterlake che ha fatto il college
il significato di abiure, e lui offre give up,
rinunciare. Il regista è uno stregone che produce immagini che
durano solo un breve spazio di tempo (Welles avrebbe voluto
continuare a montare e rimontare continuamente i suoi film).
Ed ecco allora la
splendida conclusione, con le immagini del film che il sole del
mattino rende invisibili sullo schermo del drive-in vuoto.
Nessun commento:
Posta un commento