domenica 17 dicembre 2017

Suburbicon

George Clooney

Per parlare di Suburbicon dobbiamo partire dal concetto di palinsesto. Perché il film di George Clooney nasce da una sceneggiatura dei fratelli Coen, scritta nel 1986 (il loro esordio Blood Simple è del 1984), passata in seguito a Clooney; la sceneggiatura del film è firmata da George Clooney e Grant Heslov con Joel ed Ethan Coen. E come in un palinsesto, rispunta il testo precedente sotto la riscrittura, è possibile vedere temi e figure dei Coen sotto il film realizzato; benché Clooney, regista dignitoso ma non brillante, non abbia dei Coen né la pregnanza artistica né la la grandezza del sarcasmo.
La cittadina di Suburbicon, in cui si svolge il film (ambientato all'inizio degli anni '60), è la concretizzazione edilizia di un sogno. Basta vedere i titoli di testa, che appaiono sulla sua pubblicità, nelle forme patinate e trionfaliste dei '50. Giacché la pubblicità è l'autorappresentazione di una nazione (pensiamo a Norman Rockwell). Suburbicon è l'enfatizzazione del concetto di suburb (le villette della middle class: quelle che impiegavano come giardiniere-topiario Edward Mani di Forbice) come bolla, realtà separata, corrispondente all'autorappresentazione di una società americana bianca senza traumi. Un posto dove l'ordo rerum corrisponde all'ordo idearum, nella variante americana della pubblicità: l'utopia edilizia di Suburbicon è pubblicità concretizzata.
Di qui lo scandalo per i nuovi inquilini neri che vi si stabiliscono: non perché sono negri ma perché sono middle class nera: è vissuta come un'aggressione di classe prima che di razza: la piccola e media borghesia di Suburbicon sarebbe pronta ad accettare un colore di pelle diverso – purché socialmente inferiore.
Questo tema sugli scontri razziali è peraltro secondario (e presumibilmente “clooneyano”) rispetto al tema centrale, coeniano, imperniato sulla famiglia Lodge. Qui un'irruzione notturna di due ladri, che immobilizzano gli inquilini, risulta nella morte della madre del protagonista ragazzino Nicky. Il cinema dei Coen è contraddistinto dalla pratica postmoderna del bricolage, l'impiego di frammenti significativi, il reworking di materiali filmico/mitici precedenti. In questo caso il materiale costitutivo è quello del noir – la cui storia (esempio archetipico Double Indemnity, La fiamma del peccato, di Billy Wilder) parla di destino implacabile, rovesciamenti morali e piani falliti.
Infatti... attenzione, seguono spoiler (ma tanto già il trailer del film svela follemente tutto!)... quando Nicky si intrufola nel confronto all'americana dei sospetti alla stazione di polizia, e sente il padre e la zia dire che non riconoscono nessuno, mentre i due colpevoli sono visibilissimi nella fila, il film ha un totale rovesciamento di prospettiva. Potremmo dire, tagliando un po' con l'accetta, che passa dalla suspense del thriller alla disperazione del noir. C'è una differenza tra i due. Il thriller: il figlio vuole che gli assassini siano scoperti e puniti; il suo valore è il successo nell'impresa. Il noir: il figlio scopre che l'assassino è suo padre; a parte lo shock morale, qui il valore è la salvezza personale – giacché il bambino, elemento debole per eccellenza, sa che il lupo è dentro la casa.
Parlando del padre e della zia, sua amante e complice, è bellissima la caratterizzazione di Matt Damon, il viso duro con gli occhiali, l'atteggiamento rigido da “vero uomo” dell'epoca eisenhoweriana. la severità di genitore fedele alle norme pedagogiche dei '50 (poi arrivò il dottor Benjamin Spock, spinse nella direzione opposta e fece di peggio); la precisione del ritratto arriva agli esercizi con le molle per rafforzare le dita. Per questa durezza, di cui si indovina il fondo nevrotico, la sua rivelazione come uxoricida non provoca sorpresa dopo il rivolgimento iniziale, ed è credibile che continui a presentarsi – sempre con una calma agghiacciante – come figura righteous (“quello che è bene per la famiglia”, dice).
Parimenti bellissima la caratterizzazione di Julianne Moore, che dopo essersi introdotta nel nido come complice dell'assassinio della sorella gemella si tinge i capelli di biondo per somigliare a lei (ombra di Hitchcock!) come a realizzare una sostituzione non solo affettiva ma anche fisica; e con Nicky incarna la perfetta rappresentazione della matrigna di Biancaneve.
Quanto ai due killer, riconosciamo facilmente in loro la coppia classica di assassini scemi e inquietanti dei fratelli Coen (né manca il topos coeniano del ciccione incazzoso), anche se qui sono certamente inquietanti – la scena dell'irruzione in casa è quasi insopportabile col suo senso di violazione – ma non hanno connotazioni particolari di bizzarria o stupidità.
Non dimentichiamo che un altro topos del film noir è la figura del detective delle assicurazioni; ed ecco che compare – a guastare definitivamente i progetti della coppia assassina – Oscar Isaac (A proposito di Davis) in una caratterizzazione bellissima, coi suoi baffetti scolpiti: la pagina forse più coeniana di tutto il film nel riprendere ironicamente pari pari, anche sul piano visuale, l'archetipo.
E così un piano ambizioso va a pezzi. Fedeli alla loro visione negativa dell'essere umano (con la debole eccezione di qualche “giusto” qua e là), i Coen fanno un cinema di losers, i cui piani gli si ritorcono contro. La progressiva disperazione e disintegrazione che leggiamo sul viso di Matt Damon fanno il pari con quelle di William H. Macy in Fargo (un film del 1996 nel quale si direbbe che i fratelli Coen abbiano riversato tutti gli umori acidi della loro sceneggiatura di Suburbicon). Ed è, questa, la logica irrevocabile del noir: il grande ingranaggio (The Big Clock, John Farrow, 1948) dal quale non si riesce a sfuggire; il noir è la cronaca di una caduta e di un destino irrevocabile (pensiamo all'estremismo determinista, paragonabile all'ira deorum classica, di Detour di Ulmer).
Ritroviamo in Suburbicon perfino uno dei “Kakfa breaks” (per i quali potremmo usare il termine classico di “buffoneria”) tipici dei Coen quando Mark Damon dopo essersi liberato di un cadavere se ne va pedalando grottescamente su una bicicletta da bambini. L'endiadi coeniana di humour nero e violenza assoluta si ritrova per l'appunto nella fuga in strada del detective inseguito, che invoca inutilmente aiuto mentre i cittadini di Suburbicon sono impegnati ad attaccare la famiglia negra in un riot razzista. E' un rispecchiamento, sebbene la storia della famiglia negra sia più gracile: in entrambi i casi è l'anima dannata di Suburbicon che emerge sotto il sogno della pubblicità materializzata.
Alla fine, dopo il disastro completo, totale, irreparabile, il piccolo Nicky, protagonista superstite, sotto shock dopo il crollo del suo universo, non trova che andare a giocare ad allenarsi a baseball, lanciandosi la palla, col bambino negro dei vicini, anche lui reduce da una notte di tregenda. Clooney sottolinea qui il tema antirazzista che implica un velo di tenue speranza.
Ma dobbiamo ricordare che Nicky nel film ha vissuto l'indicibile, e ricordando che una metà della coppia Coen, Ethan, si è laureato in filosofia con una tesi su Wittgenstein (cosa da tener sempre presente quando pensiamo al loro cinema) potremmo parafrasare così la più famosa sentenza wittgensteiniana: “Su ciò di cui non si può parlare, bisogna giocare a baseball”. 

1 commento:

Raffaella ha detto...

Interessante recensione Giorgio, ti leggo sempre volentieri.