domenica 15 maggio 2016

The Mohican Comes Home

Okita Shuichi

Okita Shuichi è una vecchia conoscenza del Far East Film, al quale ha presentato un capolavoro quale The Story of Yonosuke e un paio di gran bei film come The Woosdman and the Rain ed Ecotherapy Getaway Holiday; non si smentisce con The Mohican Comes Home, in cui il “mohicano” del titolo è un giovane musicista più o meno fallito, con cresta punk, che assieme alla sua ragazza incinta, torna in visita a casa, su un'isola vicino a Hiroshima. La descrizione delle due coppie – quella giovane e quella anziana, col padre maniaco del cantante pop dei suoi tempi Yazawa Eikichi e la madre tifosa di baseball – è deliziosa.
Okita ha solo 39 anni ma tutto il suo cinema sembra far apparire che è più vicino, come capacità narrativa, al mondo dei vecchi (o all'interazione tra giovani e vecchi, ossia la famiglia) che a quello dei giovani. Se l'inizio è un po' debole, il film prende ala subito quando compare il padre (grande interpretazione di Emoto Akira), che ben presto si scopre essere gravemente malato. Benché tanto il protagonista quanto suo padre siano dei musicisti (l'uno in attività, l'altro dilettante), The Mohican non è un film sulla musica ma sulla morte: sull'accettazione della morte dei genitori da parte dei figli – ovvero sulla crescita. Okita non appartiene alla classe degli Ozu, e nemmeno a quella degli Hiroki Ryuichi, ma realizza un film davvero umano e sensibile.
Questo regista ha la capacità di partire dal bozzettismo per arrivare a qualcosa di più. Mostra sempre una magnifica attenzione ai particolari (vedi qui, nel primo incontro delle due coppie in casa, il gioco sulla posizione seduta formale e non formale) e sa raggiungere veri tocchi di realtà psicologica: penso alla grande scena della madre (Motai Masako) che guarda il baseball in tv ed esulta e piange insieme. Quel forte senso di umanità che attraversa il film, come pure gli altri di Okita, gli permette di ottenere senza sforzo un mix di commedia e dramma molto libero e naturale: penso alla superba sequenza del matrimonio in ospedale (dov'è ricoverato il padre morente) con la lampada da sala operatoria usata come riflettore e la celebrante con la giacca del tailleur sui calzoni del pigiama. C'è una dolcezza della storia - ma c'è anche una fisicità molto realistica del declino del corpo e della malattia mortale (anche più che in Departures di Takita Yojiro); e la conclusione raccoglie tutto in una percezione quasi solenne del passare delle stagioni dell'esistenza. Com'è la migliore qualità di Okita, alla fine abbiamo l'impressione di conoscere i suoi personaggi, nella personalità, nei tic, nei minimi particolari, come se fossero nostri amici della realtà.

Nessun commento: