martedì 9 febbraio 2016

The Hateful Eight

Quentin Tarantino

Prima di parlare del magnifico western di Quentin Tarantino, s'impongono due avvertimenti al lettore. Uno: la presente recensione è piena di spoiler, e non consiglierei di leggerla prima di aver visto il film. Due: purtroppo ho avuto modo di vedere solo la versione italiana, doppiata (urgh!) e più breve (doppio urgh!).
The Hateful Eight è quasi un Kammerspiel con otto personaggi chiusi nell'Emporio di Minnie al riparo dal gelo omicida, in mezzo al nulla di un paesaggio innevato. Questo crea un interessante corto circuito col sottovalutato Revenant di Alejandro González Iñárritu. Però se il film di Iñárritu si fonda sulla lotta dell'uomo contro la natura, in Tarantino la natura è una minaccia invincibile e indifferente; tant'è vero che il film si svolge tutto in un interno - tranne l'apertura, dove il problema è proprio quello di uscire dalla natura per sopravvivere, e il flashback, dove la forza distruttrice del gelo viene usato come mezzo di tortura e distruzione. Piuttosto che Iñárritu, il riferimento migliore per questa storia spietata è il capolavoro (con Django) di un autore che Tarantino conosce a memoria: Il grande silenzio di Sergio Corbucci.
Chi non trova rifugio muore; l'impossibilità di qualsiasi progetto umano di sopravvivenza nel freddo mortifero coincide, in qualche modo rispecchiandola, con la riflessione ironicamente nichilista di Tarantino sull'impossibilità di qualsiasi progetto umano in assoluto. Non per nulla una delle prime immagini di The Hateful Eight è un Cristo ligneo coperto di neve. L'elemento umanitario della religione non esiste, è ghiacciato. In questo senso, esso ha esattamente lo stesso ruolo della lettera autografa di Abramo Lincoln venerata dai due co-protagonisti Samuel L. Jackson e Kurt Russell, la quale nel corso del film finisce prima sputacchiata, poi persa sulla neve, poi coperta di macchie di sangue e infine, nell'ultima immagine, appallottolata e gettata via. Ma c'è di più: il movimento di macchina che allontanandosi dal Cristo svela la diligenza in arrivo (prima apparizione umana nella storia) si oppone circolarmente a quello del finale che allontanandosi dai due feriti moribondi sul letto fa entrare nel quadro la donna impiccata.

E' per la sua perentoria compattezza drammaturgica che The Hateful Eight può essere considerato il miglior film di Tarantino dai tempi di Kill Bill, diverso dall'amabile manierismo (pur costellato di pagine affascinanti) di Bastardi senza gloria e Django Unchained. Epos di un mondo di lupi, The Hateful Eight è una Quest, una ricerca del Sacro Graal all'incontrario. La missione del bounty killer Kurt Russell è di portare in città una donna (Jennifer Jason Leigh) non per salvarla ma per farla impiccare, in base a una sorta di moralismo professionale (Jackson, suo collega nel mestiere, preferisce consegnare i cadaveri: danno meno fastidio). A questo proposito è importante il discorso del boia inglese nel film, che esprime perfettamente la contraddizione insita nella legge quale garante dell'uccidere; ma va chiarito che Tarantino la mette in scena come una contraddizione reale, legata al vivere sociale, e non come la solita denuncia a sfondo buonista di un paradosso linguistico. L'assunto morale è così enunciato: “Soltanto i brutti bastardi vanno impiccati, ma i brutti bastardi li devi impiccare”.
La compattezza del film amplifica e potenzia – a differenza dei due sopra citati - il classico grottesco tarantiniano (che riempie il film al pari del suo classico dialogo pieno di espressioni fulminanti, come “il laissez-faire dei cappelli”, e dei riferimenti allusivi nei nomi). Memorabile l'apparizione davanti alla diligenza di Samuel L. Jackson seduto su tre cadaveri congelati, una strizzata d'occhio tanto a Ford quanto a Leone; mentre la canzone di Jennifer Jason Leigh alla chitarra riproduce un elemento semidimenticato del western classico, l'intermezzo musicale (e com'è noto, quando Kurt Russell sfascia la chitarra, per errore è finita distrutta una preziosa chitarra d'epoca… realizzando una non voluta “tarantinata” oggettiva). Memorabile il bandito ferito che offre ai bounty killer il proprio futuro cadavere come parte del prezzo per corromperli. O Jennifer Jason Leigh che per non trascinarsi ammanettata a un morto gli taglia il braccio – e finirà impiccata con quel braccio che penzola come un enorme macabro braccialetto.

La violenza in Tarantino è sempre un'esplosione improvvisa: in questo regista la costruzione dell'irruzione della violenza segue le stesse regole della costruzione di una gag. In particolare, Jennifer Jason Leigh (grande interpretazione in un film pieno di grandi interpretazioni) è una specie di punching ball femminile per i colpi brutali di Kurt Russell. Lei, coi denti guasti e poi rotti, il viso devastato e i capelli sudici, è completamente deprivata di caratteristiche di attrazione sessuale (un paio di sguardi con intenzione lanciati a Jackson all'inizio rientrano nel sarcasmo più che in un tentativo di offerta di sé). Se questo vale per i personaggi, vale anche per lo spettatore. The Hateful Eight rovescia il topos western della donna prigioniera perché l'universo amoroso o erotico è totalmente assente (quando in una scena compare un accenno di galanteria, è un inganno prima di sparare). Ma anche l'uscita di scena di Kurt Russell è un rovesciamento delle attese dello spettatore, non per la morte in sé ma per il modo in cui avviene a metà storia, spiazzante quasi quanto l'assassinio di Janet Leigh in Psycho.
Se The Hateful Eight ha piena legittimità di western, e mi limito a ricordare che (Charles) Marquis Warren, nome di Jackson nel film, era un regista di western di serie B, nondimeno è attraversato dalla “deriva dei generi” che caratterizza il cinema moderno. L'avvelenamento del caffè da parte della classica mano nascosta introduce un elemento preso dal thriller e addirittura dal whodunit. Lo stesso Tarantino ha parlato di omaggio a La cosa di Carpenter, come conferma il carattere irreale e quasi horror di queste improvvise enormi vomitate di sangue; per non parlare del viso di Jennifer Jason Leigh interamente rosso di sangue nel finale che richiama visibilmente Carrie (oltre che L'esorcista).

Il film è diviso in capitoli, ciascuno col suo bravo titolo, il che di per sé introduce nella narrazione un elemento enunciativo; nonostante ciò, The Hateful Eight - che è diviso in un primo e un secondo tempo per esplicita scelta di Tarantino - nella prima parte compie un voluto inganna degli spettatori con la sua apparenza di realismo oggettivo. Questa si rovescia audacemente nella seconda parte, con il capitolo intitolato “Domergue ha un segreto”: l'entrata improvvisa di una voce narrante astratta segna il passaggio dal realismo oggettivo all'entrata in prima persona (cioè all'enunciazione) di quell'istanza narrante per la quale i teorici francesi si sono sbizzarriti a trovare una mezza dozzina di nomi, fra i quali scelgo il “meganarratore filmico”. E' ovvio che l'enunciazione di questa istanza serve anche a denunciare la sua presenza nascosta nella prima parte (col risultato, fra l'altro, di de-umanizzare in qualche modo i personaggi). Ma c'è di più. La voce narrante compie qui quella che in teoria si chiama metalessi, intervenendo direttamente sull'ordine del discorso (“Facciamo un passo indietro”) e riportandoci a 45 secondi prima. Ci mostra la mano misteriosa che versa il veleno nel caffè e ci avverte che la sola Jennifer Jason Leigh, Domergue, l'aveva visto; indi si permette quello che chiamerei, in modo poco accademico, un autentico sogghigno enunciativo: “Ecco perché questo capitolo si intitola Domergue ha un segreto”. Lo stesso gioco, in forma più mediata, si ripete più tardi nel quinto capitolo con la didascalia “Quella mattina, ore prima”. Inutile osservare che questo modo di lavorare sul tempo ci riporta al Tarantino “kubrickiano” di Jackie Brown.

L'America del film di Tarantino è l'anti-melting pot. Se pensiamo alla visione di John Ford, quale viene enunciata visivamente con chiarezza plastica nel finale “fondatore” di Drums Along the Mohawk (La più grande avventura), Tarantino si situa esattamente all'opposto. Non solo l'odio di razza scorre spumeggiando fra personaggi presenti e assenti (ricordiamo la grande battuta circa Minnie e il suo cartello su cani e messicani) ma l'emporio dove i personaggi si sono rifugiati viene immediatamente diviso fra Nord e Sud. Il bounty killer negro Jackson rappresenta l'orgoglio di una razza perseguitata ma, come sentiamo nel dialogo, da militare ha compiuto i suoi massacri contro i pellerossa, il che andava benissimo all'esercito; lui ha dovuto lasciarlo dopo un massacro di bianchi della sua stessa parte nel corso dell'evasione dal campo di prigionia confederato. E', quello di Tarantino, un homo homini lupus che va ben oltre le connotazioni “eroiche” di Django Unchained e Bastardi senza gloria (e, in chiave pop, di Kill Bill) – confermandosi nella crudeltà del gioco di provocazione con cui Jackson spinge il vecchio generale confederato (Bruce Dern) a una parodia di duello per potergli sparare.
Fedele alla mentalità nichilista e barocca di Sergio Corbucci, il già citato Il grande silenzio si chiudeva sul trionfo della morte. E' un trionfo della morte anche The Hateful Eight; e la riconciliazione fra un negro e un bianco, fra un ex nordista e un ex sudista, può avvenire solo all'ombra della morte imminente. E questo dà un doppio senso alla frase contenuta nella lettera di Lincoln che spunta per l'ultima volta nel finale: “Immagino sia tempo di andare a dormire”. Fra le doti del terribile Tarantino non manca una vena di malinconica poesia. 
 

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