sabato 16 gennaio 2016

Macbeth

Justin Kurzel

Il Macbeth è forse l'opera di Shakespeare che con più forza e convinzione gioca sulla figura retorica dell'ossimoro. Solo dalle prime tre scene: “Quando la battaglia sarà vinta e perduta”, “Un giorno così bello e così brutto non l'avevo mai visto”, e il famoso “Fair is foul, and foul is fair”. Sembra appropriato che il (fallito) Macbeth di Justin Kurzel provochi un'analoga sensazione di contraddizione. Dire “Un film così bello e così brutto non l'avevo mai visto” sarebbe esagerato, in ambo i sensi, ma certamente questo Macbeth è un altalenare da montagne russe fra tocchi intelligenti e cadute di stile. E nemmeno in egual misura: un passo avanti e due passi indietro, come diceva un Macbeth del XX secolo.
Col testo, come dire, si va sul sicuro; ma il film è fondamentalmente illustrativo, basato sul concetto un po' ovvio che gli scozzesi erano barbari, e infatti la Scozia del film (girato on location) è barbarica da rivaleggiare con quella del capolavoro di Orson Welles. Fra grandi paesaggi aspri di brughiere e montagne, questi scozzesi combattono - col volto dipinto come antenati di Braveheart - battaglie che sono sanguinose risse, di cui restano grandi sfregi e cicatrici. Anche cicatrici dell'anima: e lo shock negato del guerriero viene richiamato da uno dei tratti interessanti del film, l'uso dei morti come messaggeri delle streghe. Possiamo menzionare anche quest'ultime (quattro e non tre, con l'aggiunta di una strega-bambina) fra i punti efficaci del film, coi loro volti quotidiani (non sono le orride creature malate di Roman Polanski) e la bella invenzione delle cicatrici rituali sulla faccia.
E' originale quel miserrimo villaggio di tende e capanne, anziché il solito castello, in cui si consumano la visita e l'assassinio di Duncan. E' anche un dettaglio grazioso il coro di bambini del villaggio che canta per il re. Va detto che la povertà degli ambienti crea qualche problema sul piano drammatico: la scena in cui Macduff scopre il cadavere di Duncan ne soffre per la mera questione del tempo disponibile per le battute (il discorso del vecchio) che appare irrealistico. Peraltro ciò si nota di più perché tutta la realizzazione è discutibile, con questi scozzesi così calmi che sembrano pieni di Valium.
Troviamo un accenno interessante di linea di lettura dell'opera in una sorta di riabilitazione in itinere di Lady Macbeth. All'inizio costei è debitamente ritratta come spietata tentatrice; la sua invocazione blasfema, “Venite, spiriti che presiedete ai pensieri di morte”, è pronunciata addirittura davanti alla croce (anche se più tardi il “Genera solo maschi” di Macbeth è tagliato, forse per paura di suonare antifemministi). In seguito però Macbeth, via via che è preso dalla logica crudele della tirannide (“Il tempo anticipa i miei tremendi disegni”), sorpassa in malvagità sua moglie e la lascia indietro: talché lei piange mentre assiste all'uccisione della moglie e dei figli di Macduff (che vengono bruciati vivi).
Da ciò deriva in modo lineare la scena del sonnambulismo – solo che non c'è sonnambulismo. La regina pronuncia il suo monologo sulle mani (“Tutti i profumi d'Arabia...”) in chiesa, accasciata, guardando in macchina in primissimo piano. La scena ha senso, anche se è molto audace eliminare una delle invenzioni più famose, e drammaturgicamente efficaci, di tutta l'opera shakespeariana. Conseguentemente la scena della morte, ricostruita manipolando un po' l'ordine delle battute di Macbeth e del medico, consente di escludere il tradizionale suicidio; vediamo solo la regina distesa cerea sul letto e possiamo pensare a una morte naturale; questo congedo ellittico non è privo di un freddo pathos.
La cosa migliore dell'intero film è l'inizio muto, che mostra il rogo funebre del figlio bambino di Macbeth e sua moglie, con loro due affranti (nella citata scena delle mani la regina rivedrà il bambino come allucinazione). Perché è importante questo dettaglio? Perché il Macbeth shakespeariano è attraversato da immagini di sterilità, collegate alla mancanza di figli della coppia protagonista (“Io ho allattato...”, “...una sterile corona”, “Egli non ha figli!”), e sottolineare questo tema è una scelta molto produttiva. Breve digressione: ricordo una bellissima versione teatrale di Andrea De Rosa con Giuseppe Battiston e Frédérique Loliée, tutta imperniata su di esso, con un'intelligenza e una coerenza ammirevoli. Nel film di Justin Kurzel si rimane a un livello piuttosto estrinseco, ma è già positivo che l'allusione vi sia; è ripresa in una scena più tardi, quando Macbeth, sul discorso della “sterile corona”, punta con rabbia il pugnale verso il ventre della moglie (naturalmente Welles l'aveva fatto cento volte meglio, ma era Welles).
Michael Fassbender non passerà alla storia come il più grande Macbeth della storia del cinema, ma è abbastanza convincente con quegli occhi disperati e quella rabbia cieca. Marion Cotillard non è impressionante come tentatrice spietata (la scena dell'“Ora so quanto vale il tuo amore” mantiene quella stessa calma da Valium che segnalavo prima), però trova espressioni di dolorosa umanità nelle scene del pentimento.
Quelli che ho citato sopra sono aspetti, qual più qual meno, positivi del film. Che però vengono soverchiati da quelli negativi; in primo luogo una imprevista goffaggine nella messa in scena di molti episodi. Per esempio quando Macbeth insegue le streghe e loro svaniscono, lui è così vicino che la scena appare forzata. Macbeth, poi, che va al secondo incontro con le streghe in camiciola fa ridere (ed è un peccato perché le predizioni sono ben realizzate). La scena del banchetto è addirittura imbarazzante: non per il fantasma di Banquo ma, primo, per l'assurdo dialogo “sottovoce” fra Macbeth e il sicario in presenza di tutti (tanto valeva che usassero un megafono), secondo e peggio, per l'invenzione demenziale di un gruppo di vescovi silenziosi e immobili in riga alle spalle di Macbeth e della regina mentre i nobili sono seduti a banchetto: alla fine, nello scandalo generale per il comportamento del re, questi vescovi escono in fila zitti zitti – ed ecco che Shakespeare è diventato una parodia dei Monty Python. Quanto al finale, con lo scontro fra Macbeth e Macduff, è realizzato in modo troppo sciocco per descriverlo, e meglio lasciarlo qui.
Nel tentativo di mostrarsi originale, o forse per un malinteso senso di realismo, il film toglie un altro evergreen shakespeariano, il bosco di Birnan che si muove verso Dunsinane. Qui il bosco viene semplicemente incendiato, per cui “muoversi” è metafora del mare di fumo e faville; d'accordo, ma non si è pensato che così crolla quel nocciolo di verità derisoria che la profezia ingannatrice possiede, e non comprenderlo vuol dire non capire il Macbeth.
Sul piano del linguaggio cinematografico, il film certamente sa sfruttare la fotografia di Adam Arkapaw: una Scozia primitiva dove sembra di sentire sulla pelle il gelo e l'umidità. E' normalmente efficace nell'illustrare la crudeltà (l'assassinio di Duncan). Però non va oltre, e il montaggio sembra deciso a distruggere l'effetto della messa in scena: sono orribili alcuni ralenti da videoclip, alcuni inutili lampi di flashback, alcuni veloci pot-pourri di inquadrature, che il regista sembra voler immettere giusto per dare un tocco di “modernità”.
In conclusione, vale sempre la considerazione che, prima di misurarsi con Welles (o anche con Polanski) sul suo terreno, uno dovrebbe calcolare meglio le proprie forze.

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