domenica 4 gennaio 2015

L'amore bugiardo - Gone Girl

David Fincher

Il destino avverso e implacabile è l'ingrediente costitutivo del noir: il mondo come macchina spietata fatta per travolgere il protagonista - estrema evoluzione, rimpicciolita e involgarita, dell'ira deorum del mondo classico. Questo destino può prendere l'aspetto impersonale della coincidenza (che è appunto il nome moderno che diamo al Fato), e di questo l'esempio cinematografico più estremo e delirante è il capolavoro Detour di Edgar G. Ulmer. Oppure può prendere l'aspetto di una macchinazione invincibile in cui una mente superiore – mastermind – procede freddamente a tessere la ragnatela che avviluppa la vittima. Guarda caso, proprio il gioco da tavolo Mastermind (sfida fra un codificatore e un decodificatore) appare sottobraccio a Nick (Ben Affleck) quando si presenta al bar di sua sorella Margo (Carrie Coon) all'inizio de L'amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher, per lamentarsi con lei di sua moglie Amy (Rosamund Pike). E' un piccolo tocco metanarrativo, e ve ne sono altri nel film; per esempio, è difficile non pensare che quando i due coniugi si dicono “Quanto siamo belli: da prenderci a pugni in faccia” non vi sia un'allusione a Fight Club. I film di David Fincher sono in generale metafore dell'angoscia sottesa ai rapporti sociali (o alla condizione esistenziale: Seven), e anche qui la condizione di Fight Club, la follia (auto)distruttiva per rispondere a un'oscura carenza che si avverte sotto la patina del successo, si ricrea nella “coppia perfetta” di Nick e Amy. Si potrebbe anche dire che il loro è un fight club di fantasmi – nel senso che sono due finzioni entro un gioco di finzioni. Amy è (invenzione geniale di Gillian Flynn, sceneggiatore dal proprio romanzo) il modello di un'Amy ”vera” che è falsa: la Amazing Amy sulla quale i suoi genitori hanno pubblicato una serie di libri illustrati per ragazzi, dove tutto quello in cui l'Amy reale non riusciva a eccellere (il violoncello, la pallavolo) si sublimava nel successo dell'Amy immaginaria. Onde l'Amazing Amy della realtà si rispecchia nell'Amazing Amy della pagina scritta, fictional fin dall'allitterazione; e vive con rabbia coperta lo iato fra la sua concretezza e la sua immagine trasposta. Quanto a Nick... Nick è un burino del Missouri (ci vuole coraggio a Hollywood per disegnare un protagonista scopertamente mediocre e apertamente antipatico) che Amy per farsi amare ha trasformato in una figura altrettanto immaginaria, e il poveruomo è rimasto incastrato dentro la finzione, e ci si contorce come un verme sull'amo.
Questa sorta di anti-mélo non è l'argomento patente bensì lo sfondo del thriller: in cui (lo sappiamo, vero, che di questo film non si può parlare senza spoiler?) Amy riesce a mostrarsi veramente amazing sul solo terreno sul quale il suo doppio di carta non poteva avventurarsi, quello del crimine. Il tutto con un contorno di notazioni passabilmente sarcastiche sulla civiltà mediatica.
Sul piano del racconto, L'amore bugiardo – Gone Girl (quando il titolo inglese è complicato i geniali distributori italiani lo mantengono; quando è icastico e facile, lo cambiano) si appoggia su un elegante, efficace gioco sulla focalizzazione e sullo statuto dell'immagine. Ancora una volta, seguendo la lezione di Hitchcock in Paura in palcoscenico, David Fincher ci mena per il naso sfruttando l'antica superstizione della realtà delle immagini – e ricorda alquanto quel che aveva fatto Bryan Singer ne I soliti sospetti. Il film si articola nella prima parte, prevalente in lunghezza, su due piani: il “racconto primo”, con Nick che si trova di fronte alla scomparsa della moglie (proprio nel giorno dell'anniversario, in cui era tradizione che lei gli preparasse una “caccia al tesoro” con indizi in rima), e la visualizzazione del diario di Amy, che ci racconta l'antefatto – tutt'altro che edificante circa il personaggio del marito – della loro vita matrimoniale. Ora, noi spettatori siamo talmente attaccati al concetto che quanto vediamo sullo schermo sia “ciò che accade” che le sequenze in flashback del diario di Amy ci arrivano con una perentorietà fattuale pressoché uguale alla narrazione al presente focalizzata su Nick. Si crea un gioco psicologico per cui noi sospettiamo con facilità (come Fincher e Flynn vogliono) di Amy in relazione alla sua scomparsa - ovvero in relazione al racconto primo - ma ci beviamo come acqua fresca la visualizzazione del diario. C'è qualcosa in questo, per l'appunto, connessi a una superstizione dell'immagine; ben difficilmente cadremmo in questa ingenuità se leggessimo degli excerpta di diario in un libro.
Va aggiunto che l'alternarsi delle due linee narrative è gestito dal film con estrema eleganza (onore al montaggio di Kirk Baxter), coi flashback che dialogano col racconto primo in una logica di risposta e opposizione creando una vera tensione drammatica. Non per la prima volta si può osservare che l'eccellenza estetica si traduce in veridicità narrativa. Nella seconda parte, il racconto si biforca in due linee indipendenti relative alla (ex) coppia, con l'effetto di una moltiplicazione del gioco di specchi deformanti che costituisce l'essenza del film.
Ma quel che dà al film il suo carattere più profondo e angoscioso, e lo eleva all'altezza di grande noir, è la conclusione. Che non occorrerà qui descrivere (dopo aver spoilerato tutto il film, lasciamo almeno questo brandello alla fame dello spettatore che non l'abbia ancora visto); basterà dire che la domanda finale di Nick sul futuro ci lascia con un'impressione molto disturbante (del tutto fincheriana): che la continuazione ideale del film, quella parte di vita dei protagonisti che non conosceremo mai - a meno dell'ambigua e insoddisfacente soluzione del sequel - sia non meno impressionante e tragica del film stesso.

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