giovedì 8 gennaio 2015

Big Eyes

Tim Burton

Può sembrarci strano Big Eyes di Tim Burton, abituati come siamo a pensarlo come un regista del fantastico puro. Tuttavia si inserisce in modo logico nella sua filmografia.
Il film parte dell'immagine-base burtoniana: due file di casette unifamiliari disposte a specchio, ciascuna col loro prato e vialetto, lungo un viale assolato. E' il “mondo congelato” di Burbank dove Burton ragazzino ha vissuto un'infanzia di malinconici sogni; ed è l'immagine da cui partono i suoi film, nei quali si esce da quel viale di villette borghesi alla ricerca di un altro mondo: in senso spirituale (Frankenweenie) o materiale (Edward mani di forbice - che insegna che, se quell'altro mondo vuoi portartelo a casa, finisce male). Orbene, l'andarsene da quel vialetto è la prima cosa che vediamo fare a Margaret in fuga da un marito “soffocante” che in Big Eyes non vediamo mai.
Certo, l'uscita dal “mondo congelato” burtoniano di solito apre a un'avventura fantastica. E qui? Beh: anche qui. Perché la storia (vera, come i quadri) dei coniugi Keane è una di quelle in cui la réalité dépasse la fiction. Lei va a San Francisco e conosce l'affascinante Walter Keane, pittore alla Pissarro e gran venditore (di case, di quadri, di se stesso). I dipinti di Margaret – bambine dai grandi occhi – hanno molto più successo di quelli di lui. Walter, che in realtà non ha mai dipinto nulla, si appropria dei quadri di Margaret (firmati semplicemente Keane) con un misto di bugie, di pressione psicologica pavloviana e anche di minacce. Questo dura anni; con la crescita del successo diminuisce inversamente l'autonomia della pittrice, ridotta a ghost-painter del marito. A un certo punto lei in un supermercato comincia a vedere tutte le donne coi grandi occhi dei suoi quadri (è l'immagine più tipicamente burtoniana del film).
Non è una boutade ispirata dal titolo se dico che Big Eyes ricorda Big Fish. Quest'ultimo rappresentava il potere assoluto dell'affabulazione; Big Eyes presenta al proprio interno un esempio di affabulazione leggendaria altrettanto riuscita e nel personaggio di Walter (un ottimo Christoph Waltz, con la sua dentatura da predatore e una capacità alla Barry Lyndon di autoconvincersi delle proprie illusioni) una creatura assurda non meno fantastica – benché non mitica – di quelle che popolavano Big Fish.
Qui, ahimè, casca l'asino. Sul piano psicologico la sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaszewski non è all'altezza dell'assurdità della vicenda. Se Waltz delinea con la sua solita impressionante sicurezza un ritratto perfetto di parassita, il personaggio della pur brava Amy Adams non si lascia sentire “a pelle”. Come si può essere così stupidi (arrendevoli, se preferite) per lunghi anni? Il film nella sua parte centrale non risponde in modo convincente, benché a un certo punto ci provi con una voce narrante esterna (un giornalista) usata in modo alquanto goffo. E' vero che nel cinema di Burton i suoi personaggi-bambini sono incapaci di difendersi dal mondo, ma prima Margaret ci aveva fatto l'impressione opposta. Rimane nel tessuto del film una “zona bianca”; né Big Eyes ha il minimo intento di creare una figura dostoevskiana per cui questa stessa domanda irrisolta diventi il punto focale. In ogni modo, tutto è bene quel che finisce bene: c'è un processo (delizioso James Saito nel ruolo del giudice) e la verità e i diritti vengono ripristinati.
Big Eyes è peraltro molto interessante anche per un aspetto che va al di là di questa vampirizzazione artistica. Intanto, diciamolo subito fuori dai denti: quando un critico (Terence Stamp), un gallerista e un'intenditrice concordano nell'esprimere un giudizio assolutamente negativo sui dipinti “dai grandi occhi” firmati Keane, hanno perfettamente ragione.
Questi quadri sono poco più su dei terribili clown che sono la progenie maledetta dei pittori della domenica. La verità è che Margaret Keane ha inventato un modulo estrinseco e l'ha applicato a stampo (a un livello indubbiamente più alto, è lo stesso problema dei ciccioni di Botero). Come dice Terence Stamp nel film, è grafica, non pittura. E che Margaret non raggiunga mai un livello pittorico alto lo mostra il fatto che quando, in segno di protesta e indipendenza, cambia stile, produce dipinti mediamente migliori ma dipende fortemente da Modigliani. Osservazione personale: senza esigere Francis Bacon o Lucian Freud, quanto è più bello l'accademismo muscoloso e pompier di Frank Frazetta o Boris Vallejo!
La parola “grafica” ci aiuta a capire il senso profondo del film. La perversa genialità di Walter non mira a fondare un impero sulla vendita dell'originale bensì della riproduzione. Direbbe Benjamin che in questo caso la riproducibilità è tanto più facile in quanto l'aura di questi quadri di basso valore artistico è trascurabile. Quanto Burton sia consapevole di questo nodo centrale lo mostrano in modo indubitabile i titoli di testa (il film poi mette in epigrafe una colossale sciocchezza di Andy Warhol).
Anche se il parere di Burton sull'artista è positivo, e in passato le ha commissionato un ritratto della compagna Lisa Marie (peraltro una delle sue opere migliori), Big Eyes è anche una riflessione pacatamente ironica non sull'arte ma sulla sua riproduzione a livello di massa; non la riproduzione come copia del dipinto ma il dipinto come base per la sua riproduzione; e allora abbiamo il gioco di specchi di una menzogna che viene riprodotta in milioni di esemplari – ovvero la menzogna che possedere un poster di Keane significhi possedere un Keane. L'inganno nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.

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