lunedì 29 settembre 2014

Quarto potere

Orson Welles
Siamo nell’ufficio di Thatcher, furioso per una “bufala” giornalistica inventata dal giovane Kane. In questa scena la curiosità a lungo protratta dello spettatore è finalmente esaudita, con l’apparizione di Welles “al naturale”, giovane e sorridente, dopo che lo abbiamo visto truccato da vecchio morente nell’apertura e poi sotto varie forme di trucco nel cinegiornale (la varietà illusionistica e teatrale dei volti di Kane a varie età nel film replica il fervore dimostrativo della magia dello spettacolo che indirizza l’opera di Welles. La parte di Kane è una vera orgia del trucco).
E’ un momento fortemente enunciativo. Citizen Kane (Quarto potere) il pubblico deve vederlo in quanto film di Welles, il genio del teatro e della radio approdato a Hollywood, quello che dopo War of the Worlds i giornali hanno a lungo chiamato “il marziano”.
E Kane dice: “Non capisco niente di giornali, signor Thatcher, quindi provo quello che mi viene in testa”. Basta mettere “cinema” al posto di “giornali”, e l’identificazione è completa; è lampante il riferimento autoironico alla sua avventura hollywoodiana appena iniziata. Del resto, potremmo osservare, se Orson Welles è il golden boy della RKO, l’appellativo si attaglia perfettamente anche a Kane - la cui ricchezza viene, in origine, da una miniera d’oro.
S’intende che l’episodio del telegramma all’inviato a Cuba ci riporta immediatamente a Hearst. Kane è una figura doppia. Non si tratta certo di cancellare idealmente il nome Hearst da Citizen Kane per scrivere al suo posto Welles; il riferimento a Hearst, e quello (crudelmente ingiusto) a Marion Davies nel film sono scontati, attizzati dall’odio del co-sceneggiatore Herman Mankiewicz. Ma Citizen Kane, che all’inizio doveva chiamarsi American, è molto di più; è una gigantesca autobiografia americana (come lo sarà il film col quale forma un dittico, L’orgoglio degli Amberson) e in questa anche Welles ha la sua parte. Ripensiamo a come in tutta la sua carriera Welles abbia costruito i propri personaggi quali doppi che esprimono una parte di sé.
Tanto Welles è elegantemente evasivo quando si esprime nelle interviste, quanto è chirurgicamente lucido quando si esamina nella proiezione dei suoi personaggi. “In fondo oggi ha rifatto la prima pagina solo 4 volte”: una battuta che, a sentirla oggi, non possiamo non vedere come puro autoritratto, se pensiamo che per tutta la vita la caratteristica profonda di Welles - e la rovina dei suoi rapporti coi produttori - sarà l’ossessione di rifare continuamente il film (dice Leland/Joseph Cotten più tardi: “Non ha mai finito niente in vita sua - salvo il mio articolo”; altra battuta che mette i brividi). Quando Leland ubriaco, dopo la sconfitta elettorale, critica il paternalismo di Kane e gli preconizza un triste futuro, questo non fa pensare solo al magnate della sceneggiatura.
Perché la massima grandezza del venticinquenne Welles in Citizen Kane è proprio di amplificare i suoi tratti autobiografici in una proiezione futura; si può dire che sotto la maschera (doppia, anzi, multipla) di Kane Welles mette allusivamente in scena non solo il proprio presente ma anche i suoi timori, un futuro possibile, una propria parte negativa che il film è un mezzo per isolare, esaminare, esorcizzare nella creazione artistica.
Il tema del fallimento esistenziale, e dell’auto-esilio in un artificiale “regno della delusione” (qui l’eternamente incompiuta Xanadu, macchina celibe architettonica), è talmente insistente in Welles fin dal primo film che non si può non pensare a un terrore continuamente presente - anche in questo inizio pieno di speranza - sotto il sorriso un po’ sfacciato del golden boy.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

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