lunedì 29 settembre 2014

L'orgoglio degli Amberson

Orson Welles
Dopo il titolo, la voce nostalgica di Orson Welles entra su un lungo “nero” che poi sulla spinta di quella voce si apre al visivo con l’inquadratura della casa degli Amberson, in una descrizione incantata del tempo passato. L’istanza narrante si materializza nella voce. L’orgoglio degli Amberson è il film di Welles in cui più forte e dichiarato appare il suo legame con la radio: la voce narrante è generatrice della visione. Si permette anche a un certo punto di accennare un duetto verbale con un personaggio (la saggia signora pettegola), realizzando nella narrazione affascinanti spostamenti dello statuto di realtà. Più tardi, introduce - come per enunciarne la solennità - la potente riflessione del Maggiore Amberson sull’universo e la morte; vicino al finale, introduce e commenta, lenta e triste, la preghiera di pentimento di George. Inoltre, quale concretizzazione dell’istanza narrante, è responsabile della rivoluzionaria freschezza e densità del linguaggio visivo. Per questo alla fine, nei famosi credits visivi che sostituiscono i cartelli, al momento di nominare il regista vediamo nell’inquadratura la voce di Welles provenire da un microfono... “My name is Orson Welles”... che poi si allontana e sparisce nella dissolvenza, e ciò segna la fine del film.
Dice il luogo comune che Welles a differenza di tutti gli altri suoi film non è interprete negli Amberson. Ma la verità è che Welles interpreta gli Amberson due volte. E’ la voce narrante, nella sua materialità generatrice; ma è presente anche in un secondo modo, proiettandosi fisicamente nella narrazione attraverso l’interpretazione di Tim Holt, che in tutto il film sembra il suo doppio, una sovrimpressione spettrale. Welles trasforma Tim Holt in un particolarissimo stand-in di Welles stesso nel ruolo di George Amberson Minafer (già interpretato da Welles stesso nell’adattamento radio dell’ottobre 1939). E qui va ricordato che Welles affermava - ma la veridicità è dubbia - che Booth Tarkington, autore del romanzo, frequentasse la sua famiglia e l’avesse conosciuto nella prima giovinezza: lasciando intendere che il personaggio di George fosse stato modellato proprio su di lui.
Così Welles ne L’orgoglio degli Amberson trasforma la sua consueta tecnica proiettiva - di mettere in scena un personaggio che è una parte di se stesso, di una sfaccettatura della propria personalità polimorfa - in un gioco di specchi raffinato: dove Welles proietta se stesso nel corpo fisico dell’interprete per inscenare per interposta persona la proiezione di se stesso nel personaggio di George.
Una doppia presenza, non fisica ma materiale e fondante. Ora pensiamo alla grande scena della preghiera di George, la notte prima di lasciare per sempre casa Amberson, che chiede perdono alla madre morta (forse la scena più alta e libera, aperta e commossa, senza mediazioni, che Welles abbia mai girato; forse dovremo aspettare il Falstaff per vedere qualcosa di altrettanto diretto).
La voce narrante la introduce, la sorregge, implicitamente la giudica. Si realizza così un corto circuito fra le due presenze di Welles nel film: il Welles voce/istanza narrante, dal suo punto di vista assoluto, non focalizzato, onnisciente, guarda dall’alto e giudica il giovane Welles/personaggio, figura smarrita che è arrivato alla comprensione, nel corpo di Tim Holt.

(Citizen Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)

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