domenica 31 agosto 2014

Lo zoo di Venere

Peter Greenaway

A Zed & Two Noughts (Lo zoo di Venere: e per una volta sia consentito preferire il titolo italiano, meno significante, ma più magico, più grumoso), di Peter Greenaway, è un film allegramente ossessivo. L'ossessione della simmetria.
Le nozioni di simmetria, specularità, bilateralità sono centrali nel film fin dal livello figurativo, con la sua partizione pervicacemente simmetrica di spazi e figure. L'esempio più facile è la camera di Alba (Andrea Ferreol) e le sue scene coi gemelli Deuce, ma fin dalle prime inquadrature vediamo il mantello “zebrato” della tigre su un manifesto bilanciato a sinistra dalle strisce “zebrate” della sbarra sull'entrata (1).
Ed è, la zebra, il simbolo animale del film. La domanda di Greenaway se sia un animale nero a strisce bianche o bianco a strisce nere è irreale: sappiamo che le zebre sono bianche a strisce nere. Ma ha un senso in quanto postula – e ne impone il concetto allo spettatore – una ipotetica, platonizzante zebra assoluta, una ur-zebra perfettamente simmetrica che incarna il concetto centrale del film.
La simbologia assume una particolare importanza in quanto, ne Lo zoo di Venere, Greenaway rifiuta un modulo narrativo lineare di tipo romanzesco (storia di uno sviluppo e di una crisi, passaggio da un ordine a un altro) in favore di un movimento circolare, o meglio, a spirale. Il film si struttura su temi – come dei Leitmotive – ciascuno dei quali prima accennato, poi via via ritornante, rafforzato e sviluppato, in senso musicale, ma sempre uguale a se stesso. Così prima di metà film si trova completamente delineata agli occhi dello spettatore una tessitura di motivi estremamente precisa e interconnessa: un universo auto-referente che Greenaway – una vola posto – non ha bisogno di variare o accrescere, ma di cui segui il ripetersi con la sua già nota olimpicità, crudele e per questo toccante (2). Il film si chiude sull'immagine di un disco che non gira più.
Ecco allora che il richiamo alla mitologia classica, uno degli aspetti strutturali del film, non è bizzarria o tantomeno orpello. Il passaggio da immaginario mitologico a realtà diegetica non è contraddizione e trasformazione, è solo questione di grado, è tema, già-dato, che ritorna nel continuo moto circolare. Questo vale per il mythos classico (Leda, i Dioscuri) come per il racconto aneddotico e casereccio: così la storia raccontata da Alba sulla cortigiana francese senza gambe contiene in nuce la sua stessa futura storia, o le storielle pornografiche di Venere di Milo, prostituta aspirante scrittrice,sul congresso carnale con animali si tradurranno – fallimentariamente? - in realtà. La stessa teoria scientifica nel film è strettamente equiparata al racconto e si trasforma in pressi senza soluzione di continuità.
Siccome poi Peter Greenaway è un pittore e pensa per immagini non ci stupiremo che anche l'opera di Jan Vermeer sia un già-dato che ritorna e ritorna come motivo. Proprio Jan Vermeer (1632-1675), con la sua partizione tersa e rigorosissima degli spazi attraverso il colore...
La tensione verso l'ordine simmetrico (3) è la dannazione dei personaggi. Alba, priva di una gamba dopo l'incidente, è asimmetrica. Quindi il chirurgo Van Meegeren – un dr. Frankenstein vermeeriano, ossessionato dall'idea di riprodurre nella realtà l'opera del Maestro (4) – le taglia anche l'altra gamba, perché ciò permette maggior fedeltà a un'opera di Vermeer in cui le gambe non si vedono, ma soprattutto per recuperare l'armonia originaria. E Alba sogna l'utopia erotica della donna senza gambe, vagina “senza ostacoli”, in grado di amare e partorire liberamente, e parla della gamba superstite come di qualcosa che soffre e fa soffrire.
Idem per i gemelli Deuce: siamesi separati, hanno perso l'unità originaria (i Dioscuri, nati da un unico uovo e speculari nel loro essere alternativamente un giorno all'Olimpo e un giorno agli inferi. Legati al mito di Leda. Connessi al cavallo... e che è una zebra se non un cavallo a strisce?). I Deuce dopo la separazione si erano sposati con donne che la ignoravano, costruendosi – è implicito – delle biografie separate. Morte le mogli nell'incidente, ritornano pian piano all'impossibile sogno di fondersi. Si somigliano sempre più, fanno le stesse cose, vanno a letto insieme con Alba (che partorirà loro due gemelli commentando: due sono entrati e due sono usciti). Insomma la completa specularità. Ma non basta: tentano farsescamente di ricucirsi e si fanno confezionare da Venere un assurdo “abito per siamesi”, chiusi nel quale andranno infine a uccidersi con perfetta simmetria.
E qui è il momento di parlare del secondo tema del film: il fallimento. La tensione verso la simmetria comporta la propria frustrazione.
Il dottor Van Meegeren taglia ad Alba l'altra gamba. Ma attenzione: H.A. Van Meegeren (1884-1947) fu nella vita reale un famoso falsario, naturalmente vermeeriano (riuscì ad appioppare un suo falso anche a Hermann Goering). Il Van Meegeren del film è falso, losco, velleitario e pateticamente innamorato respinto di Alba. È un simbolo di impotenza.
Anche senza gambe Alba resta mutilata, incompleta, asimmetrica (il suo pianto di protesta contro Van Meegeren e contro Vermeer può ricordare quello della Marie godardiana contro Dio). Dopo essersi accoppiata ai gemelli si fidanza al suo omonimo speculare Arc-en-Ciel, anche lui senza gambe, ma è una sistemazione più che altro sociale. Alba muore.
Falliscono (in mezzo ai fallimenti di tutti i personaggi, nessuno escluso) i gemelli Deuce. Costorpo sono ossessionati dalla decomposizione, che studiano riprendendo il disfacimento degli animali e proiettandolo accelerato (uno degli aspetti visivamente più affascinanti del film). Perché? A un certo punto de Lo zoo di Venere un personaggio enuncia un concetto chiave: la decomposizione inizia con la perdita della simmetria bilaterale del corpo.
È la natura che destruttura l'ordine del corpo per ristrutturarlo nella sua lenta, fangosa evoluzione (lumeggiata nel documentario della BBC di cui vediamo alcune scene). I gemelli vi si ribellano. Il loro scopo è di trovare un senso alla morte: inserire il dolore personale (le mogli) in una spiegazione complessiva (5). Ma il loro lavoro è velleitario (e illegale), è il mero cedere a un fascino morboso. Dopo aver spiato il disfacimento della zebra (vertice dell'animalità), restano loro solo gli esseri umani. Non possono ottenere il corpo di Alba? Si uccidono filmandosi.
E in questo sconvolto studio della simmetria, come si situa il sesso? Ah, ma anche il sesso è scomposto e asimmetrico. Nel sesso i corpi si torcono, si abbandonano, ne colano umori e succhi: Greenaway assimila il sesso alla decomposizione (6). Ecco apparire il secondo animale-simbolo del film: la lumaca, animale primitivo, ermafrodita e connesso al marciume. Le lumache invadono le apparecchiature predisposte dai gemelli, coprono i cadaveri, fermano le macchine, trionfano sullo schermo.
Così tutte le astrazioni ricompositive degli esseri umani falòliscono (7): le loro istanze ordinatrici (scienza o racconto) sono perdenti. Non a caso la mdp di Greenaway ha delle fissità che la assimilano alla mdp bloccata dei gemelli nelle riprese di decomposizione. Il vincitore è la natura che, come sappiamo, attraverso la decomposizione opera.
Probabilmente il terrore della decomposizione è la forma che meglio assume la paura della morte nell'uomo contemporaneo, figlio di una cultura della centralità del corpo. Ecco allora apparirci chiara la matrice culturale del film. Lo zoo di Venere è una grande meditazione barocca sulla morte, sulla sua necessità entro lo schema delle cose, sulla dolorosa inanità umana a farsene carico, a darsene un senso. Una grande meditazione barocca, più culterana che concettista, più vicina a Gongora che a Quevedo: e in questo splendido film, se non fosse per la vivacità del suo humour noir, il grande poeta di Cordoba avrebbe visto un degno complemento ai suoi sonetti funebri (“Malinconica guglia, ma lucente”).

(Nickelodeon, 1986)

(1) Ma ricordiamo anche nell'inizio la scritta ZOO diabolicamente luminosa nel cielo notturno, vero ideogramma di Alba e dei gemelli, e anche qui c'è una contrapposizione e un bilanciamento.
(2) La commozione per essere seria ha sempre bisogno di sposarsi alla crudeltà: o si cade nel pietismo (vedi l'immondo Storia d'amore di Maselli).
(3) Ci troviamo nell'ambito della scuola pitagorica. “Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo nulla sarebbe possibile pensare né conoscere”, dice un suo esponente, Filolao di Crotone.
(4) Ha anche un Igor: la sua complice Caterina Bolnes, che in sala operatoria pettina in acconciatura vermeeriana Alba anestetizzata, appare col cappello rosso di un altro quadro di Vermeer, fa ritornare un simbolo archetipo del film nelle sue mutandine zebrate... Caterina Bolnes era il nome della moglie di Vermeer.
E per inciso: quando l'attrice Guusje Van Tilborgh appare sullo schermo nuda con il cappello rosso fa balenare una bellezza lievemente autunnale che spesso dimentichiamo, la bellezza del corpo maturo.
(5) Uno dei gemelli all'inizio del film: “Non sopporto l'idea che mia moglie vada marcia”. Alba, più tardi, gli replica: “Hai una visione personale dell'evoluzione!”.
(6) Forse per divina casualità la mela che marcisce nel primo filmetto dei gemelli realizza per un attimo la parodia di una vagina e di un ano?
(7) In The Draughtsman's Contract (I misteri del giardino di Compton House) il pittore – abituato a razionalizzare geometricamente lo spazio – altrettanto velleitariamente voleva razionalizzare i rapporti sociali mediante un contract.

1 commento:

bla78 ha detto...
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