giovedì 27 dicembre 2012

Vita di Pi

Ang Lee

Diciamo la verità: si va a vedere “Vita di Pi”, di Ang Lee, per vedere la tigre. La storia del film la conosciamo tutti: un giovane indiano sta viaggiando sul mare con un intero zoo nella stiva, destinato alla vendita in Canada. Quando la nave affonda in una tempesta, l'uomo si trova a condividere la scialuppa di salvataggio con alcuni animali, dei quali l'unico a sopravvivere è una feroce tigre del Bengala - con la quale deve trovare in qualche modo una convivenza.
L'idea solletica fortemente il nostro gusto per l'avventura; niente di male in questo; anzi, se il film di Ang Lee ha un merito è proprio di portare sullo schermo con vigore quest'odissea. La materialità dura e concreta del rapporto d'incontro/scontro fra il naufrago e la tigre, e delle loro reciproche traversie, è resa ottimamente; sotto questo aspetto Ang Lee realizza sequenze memorabili. L'uso credibile e fascinoso della CGI riesce perfettamente a mimetizzarsi nelle riprese reali (e più tardi popola l'isola dove approda provvisoriamente la scialuppa di un'indimenticabile folla di suricati, moltiplicati al computer).
Bisogna aggiungere che “Vita di Pi” sono due film in uno; e il consiglio è di sopportare il primo per arrivare al secondo. Infatti la parte iniziale è faticosa e indecisa. Questo inizio divagante, che non si capisce dove voglia andare a parare, da un lato manca di quell'ammirevole capacità del cinema americano classico di indirizzarsi - vorrei dire - spietatamente verso l'oggetto base della narrazione, dall'altro non riesce ad attingere quella vivacità nel seguire i vari percorsi della vita che ci hanno insegnato le varie nouvelles vagues. E' caratterizzato da una verbosità estenuante, che ci lascia con l'impressione di aver visto uno dei film più parlati della storia del cinema. Quando la voce narrante cessa di imperversare, si passa a densi dialoghi; e così via.
Bisogna dire che Ang Lee fa del suo meglio per sopperire al bla bla curando il visuale. Per esempio la descrizione della piscina di Parigi è un'immagine molto bella, con quelle attraenti signore in costumi anni '50 fotografate nei colori tenui di un film appunto dei '50. Regista molto visivo, Ang Lee non perde occasione per trovare belle immagini (ad esempio, la nave che affonda vista sott'acqua, con tutti i fanali ancora accesi). La fotografia di Claudio Miranda è sempre notevole, seppure a tratti un po' leccata.
La responsabilità del carattere in ultima analisi insoddisfacente di “Vita di Pi” sta nell'incontro ill-fated fra un regista della concretezza come Ang Lee e una sceneggiatura poco felice di David Magee, che non riesce a rendere in modo egualmente convincente i vari livelli del testo. Tratto dal romanzo di Yann Martel, “Vita di Pi” è stato reclamizzato come un film di suspense avventurosa (con un sottofondo filosofico, d'accordo, ma questo sembra essere inerente a tutti i naufragi; ce l'aveva anche “Castaway”); ma in realtà è un ambizioso conte philosophique. Quelle che nel racconto sembrano falle logiche si spiegano poi grazie alla conclusione – che non vado a rivelare (comunque, attenzione! Di qui in poi ci aggiriamo nei perigliosi territori dello spoiler). Essa dà ragione della comparsa impossibilmente subitanea della tigre quando attacca la iena, nonché della scomparsa dei cadaveri dopo (la tigre ne mangia anche le ossa? e non restano tracce di sangue?). In effetti, il progetto del film è stato palleggiato nell'arco di dieci anni fra registi portati al côté immaginoso e fantastico (Shyamalan, Cuaron, Jeunet).
Ang Lee avrebbe dovuto prendere del racconto solo il nucleo centrale se voleva darne la trattazione realistico-avventurosa che ne ha dato. In questo senso, il realismo stesso delle belle sequenze con la tigre produce una bizzarra contraddizione: da un lato è il cuore del film, ed è ovviamente il motivo per cui esso incassa molto al box office; dall'altro, lavora contro i sottintesi filosofici e simbolici, ne indebolisce la portata. Quando poi arriva la conclusione (diciamo, una spiegazione alternativa dei fatti; si lascia allo spettatore di scegliere), è francamente insopportabile che sia enunciata soltanto a parole – e non solo perché di parole, nel film, ne abbiamo già sentite francamente troppe. Se ricordate il discreto film horror di Federico Zampaglione “Shadow”, che in qualche modo poterebbe essere assimilato a “Vita di Pi” (e non è il solo nella storia del cinema), pur esso aveva l'intelligenza di visualizzare la spiegazione alternativa. Altrimenti resta sospesa ai discorsi.
Tiger, tiger, burning bright / In the forests of the night, / What immortal hand or eye / Could frame thy fearful simmetry?” Questa poesia la conoscono a memoria tutti i bambini inglesi. Ma cosa intendeva William Blake parlando di fearful simmetry? La “spaventosa simmetria” non è solo la conformazione del corpo della tigre, la sua bellezza. E' anche la sua micidiale agilità, la sua feroce determinazione. La tigre è puro atto senza parole. In questo senso la tigre che vediamo nel film è la negazione del film stesso, della sua verbosità e dei suoi simbolismi e filosofemi.

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