domenica 28 giugno 2009

Sacro e profano

Madonna

Sapete perché andrò in Paradiso?, chiede agli spettatori il baffuto Eugene Hutz (il leader dei Gogol Bordello) nel film d’esordio di Madonna come regista, “Filth and Wisdom” - mal tradotto dai nostri distributori come “Sacro e profano”. E’ perché “sono stato abbastanza umile?” - si risponde da solo: “Assolutamente no”. Il che è certamente vero (per la cronaca la risposta esatta è: “Perché ho detto la verità”): in effetti l’umiltà non si può considerare un attributo di Hutz. Fin dall’apertura in puro stile anni ’60 dove si rivolge direttamente al pubblico (e sembra un incrocio fra Borat e qualche saggio folle dei Sixties come un Dennis Hopper giovane), per tutto il film non smette di riversare sullo spettatore, direttamente interpellato guardando in macchina o in voce over, un diluvio universale della sua filosofia (sintesi: il bene e il male, l’inferno e il paradiso, la schifezza e la saggezza sono due facce della stessa medaglia e “siamo tutti nella stessa barca di merda”) - e quella di Madonna, che produce, dirige e sceneggia insieme a Dan Cadan.
Si è parlato al proposito di “fortune-cookie philosophy” (cito una recensione severa ma intelligente e splendidamente scritta di Eric Hynes). Ma siamo onesti, il riferimento del film è la cultura pop, e non è che nei testi delle canzoni dei Gogol Bordello o di Madonna si trovi molto di diverso; né si può dire che questi onesti truismi ci stiano così male - se volete trovare vere insopportabili banalità filosofoidi spacciate pomposamente per saggezza assoluta, più che a Madonna dovete rivolgervi a Ermanno Olmi (“Centochiodi”). Alcuni aforismi sono carini, e tutti hanno a loro pro la simpatia del personaggio. E’ più l’insistenza di queste perle di saggezza a rischiare di affondarle (così torrenziale, scontenterebbe anche Schopenhauer) che non le sentenze in sé. Si legge in filigrana un’insicurezza sul mantenere legata la storia; si sente nel film un’urgenza da opera prima di dire, di metterci dentro tutto, come un’ansia di non farsi sfuggire niente.
Lo zingaro ucraino Andrej (Hutz), che anche nel film suona con i Gogol Bordello oltre a lavorare (assai castamente) nel campo del gay sadomaso, fa da filo legante nella storia di vari personaggi londinesi: alcuni centrati, come la bella Holly (Holly Weston) che passa dal balletto classico alla lap dance per alzare un po’ di “quid”, la navigata Francine che le insegna il mestiere, l’indiano Sardeep e sua moglie, la doppia macchietta dei coniugi Goldfarb; altri francamente banali, come Juliette (Vicky McClure), una terzomondista accigliata di antipatia unica, o il poeta gay cieco depresso interpretato in modo caricato da Richard E. Grant. Quanto a Hutz, nonostante gli sforzi della sceneggiatura più che un personaggio è l’ipostasi della Weltanschauung di Madonna e dei Gogol Bordello.
I Gogol Bordello (una sequenza sembra un loro clip inserito) non sono meri ospiti: rappresentano l’anima stessa di “Filth and Wisdom”: il loro ritmo gasato, sbandato e trascinante contagia - o vorrebbe contagiare - l’intero film. Giustamente “Filth and Wisdom” finisce in musica, come un film meno pudico ma che in qualcosa gli somiglia, “Shortbus” di John Cameron Mitchell. La colonna sonora, va da sé, è gustosissima, e c’è uno scherzo assai divertente: nel locale di lap dance, quando Holly vestita da liceale sostituisce la collega Tracey, un pezzo di Madonna viene troncato brutalmente per mettere su uno di Britney Spears. Un delizioso passaggio autoironico di consegne; ma va notato che, mentre Holly come spogliarellista ha l’appeal della dilettante lolitesca, Tracey è una professionista stupefacente (e sì, questo film è anche, fra mille altre cose, un omaggio alla lap dance), quindi lo scherzo potrebbe avere una profondità maggiore di quanto sembri.
Artista audace e intelligente, Madonna si è buttata nell’avventura registica con quell’esuberanza contagiosa che ha sempre posseduto - e che la rende una grande. Il suo gradevole film non è privo di difetti (dal montaggio alla scrittura) ma possiede una convinzione che si traduce in disarmante onestà. Così - al pari di Eugene Hutz - anche Madonna può dire: andrò in Paradiso non perché sia stata umile ma perché ho detto la verità.

(Il Nuovo FVG)

Lasciami entrare

Tomas Alfredson

I vampiri, si sa, per poter entrare devono essere invitati. Ma il titolo originale svedese e quello inglese dello splendido “Lasciami entrare” di Tomas Alfredson (tratto dal romanzo di John Ajvide Lindqvist, anche sceneggiatore) sono più specifici dell’italiano: “Let the Right One In”, “Lascia entrare quello giusto”. E proprio questo è il problema del film, che si svolge - in colori cupi e smorti (anche il sangue) - in una Svezia desolata di giorni tristi e notti buie e solitarie. Storia di un dodicenne con genitori separati e assenti, tormentato dai bulli a scuola, che fa amicizia con una vampira coetanea (“Ho 12 anni… ma ce li ho da un sacco di tempo”), “Lasciami entrare” è un racconto di nordica solitudine disperata, dove la neve che copre il terreno vale come metafora della temperatura morale zero dell’ambiente. Nessuno nel film comunica con nessuno.
La vampira Eli non ha niente dell’appeal para-byroniano dei vampiri romantici contemporanei. Ringhia come una bestia, balza sulle vittime isolate per dissanguarle, Tomas Alfredson insiste a più riprese sulla sua bocca sporca di sangue; eppure lei e Oskar (splendide interpretazioni di Kåre Hedebrant e Lina Leandersson)sono gli unici personaggi umani di questo mondo di zombi in forma d’uomini - o di nazisti ante litteram come la banda dei persecutori del ragazzino. Di qui la loro alleanza (“Chi sei?” - “Io sono come te”). Non per nulla, dopo i desolati titoli di testa minimalisti, il film si apre con Oskar a torso nudo riflesso trasparente nel vetro della finestra che dà sulla notte: metaforicamente anche lui è un fantasma, non appartiene a quel luogo.
Come sceneggiatore, Lindqvist ha avuto il coraggio di tagliare impietosamente il suo libro e, contrariamente a quanto spesso accade, ciò rende il film più asciutto e in qualche misura migliore del romanzo. Ci rimette la figura del collaboratore umano del vampiro, che nel romanzo è un pedofilo innamorato di Eli mentre nel film resta un po’ indefinito. Ma la ridefinizione operata (che elimina il tocco grottesco di un cadavere che non muore mai, ciò che rende il film più realistico, e accenna appena al carattere androgino di Eli) da un lato rende la storia più concentrata e fulminante, dall’altro la spinge ulteriormente sul versante di un disperato e intenso romanticismo preadolescenziale. “Lasciami entrare” è parente - per citare opere recenti - più di un bel film sull’adolescenza come “Stella” che di epopee sanguinose come “30 giorni di buio”. E’ un film di vampiri come avrebbe potuto concepirlo Truffaut – che ci parla dell’adolescenza, i suoi tremiti, le sue incertezze, la sua rabbia, il batticuore, la solitudine, la curiosità sessuale, (lo sguardo a Eli nuda nel bagno), la trasformazione l’innocenza e la perdita. Di tutto questo è immagine-simbolo il sangue che resta sulle labbra di Oscar dopo il bacio.
Le inquadrature di “Lasciami entrare” sono piene di framing, specchi, surcadrages e via dicendo - che rare volte assolvono alla stessa funzione narrativa dello split screen, ma più spesso separano i personaggi nell’estraneazione, li imprigionano in gabbie di linee o in riflessi, frazionano e partiscono lo spazio - a esprimere una realtà ambigua, un mondo opprimente e moralmente privo di senso, il cui continuo rovesciamento non può che portare a una morale disperata eppure più limpida. La morale del vampiro.
Non voglio dire che Lindqvist sottintenda una concezione nietzschiana del vampirismo come potenza del più forte; anche i dialoghi di Eli con Oskar ci portano, con una secchezza hemingwayana, dentro la malinconia del vampiro; ma è inevitabile riconoscere una particolare innocenza a Eli e Oskar, circondati da questi fantocci vuoti (nota il raddoppiamento ironico quando dopo una visita di Eli la madre arriva a casa e chiama: “Oskar, fammi entrare”). Non a caso la ragazzina vampiro, nel climax, irrompe nella piscina come incarnazione di un’aspra giustizia - e anzi, nel romanzo i testimoni la prendono per un angelo. Così il film ha l’audacia di mettersi interamente sotto il segno della canzone di Morissey che gli dà il titolo, e che parla di iniziare una nuova esistenza (“Let the right one in… Let the old dreams die… Let the wrong ones go… let the old things fade”). E’ questo che fa il protagonista: una scelta. “Sgattaiolando di soppiatto nell’oscurità” come Bilbo nel brano de “Lo Hobbit” letto a scuola (un elegante tocco metanarrativo), Oskar cambia vita.

(Il Nuovo FVG)

lunedì 15 giugno 2009

Terminator Salvation

McG

“Io e te siamo in guerra fin da quando non esistevamo”. Con il quarto episodio della saga, “Terminator Salvation” di McG (Joseph McGinty Nichol), continua l’eterna guerra fra gli umani della Resistenza guidata da John Connor e le macchine di Skynet: una doppia guerra, che si combatte tatticamente sul terreno e strategicamente nel tempo. Nel presente film, invece che modificare il passato per eliminare Sarah Connor e pertanto suo figlio John, Skynet preferisce cercare di uccidere nel tempo presente sia John sia il suo futuro padre Kyle Reese (chi si sente smarrito in quest’intrico temporale ha ragione, ma non ha che da guardarsi in dvd i film precedenti).
Ambientato nel 2018, il film ci apre allo sguardo il nero futuro in cui gli ultimi umani combattono contro le macchine omicide (deliziosa l’apparizione finale in un cameo digitale di Arnold Schwarzenegger nudo nel suo ruolo tradizionale di un Terminator modello 800). Questo mondo devastato, semideserto, punteggiato da scheletri di edifici e resti di macchinari (uno dei tanti mondi “postatomici” del cinema derivati dalla sorgente visionaria di “Mad Max”) è ben delineato, con un notevole lavoro scenografico, anche se a James Cameron nel primo “Terminator” bastavano pochi accenni per una visione più toccante e inquietante (ricordate i bambini davanti a un televisore che non è un televisore?). I due poli spaziali del film - le tane segrete e diroccate degli uomini versus la tecno-città delle macchine - rappresentano concretamente la polarità che attraversa tutta la serie anche sul piano morale.
“Terminator Salvation” è naturalmente inferiore ai due capolavori di James Cameron, ma in compenso è un gradino sopra al (divertente ma modesto) terzo episodio di Jonathan Mostow. Ben servito dall’abile montaggio del regular cameroniano Conrad Buff, è un piacevolissimo film d’azione pervaso di quell’oltranzismo che caratterizza l’action contemporaneo, un eccesso narrativo affine ai videogiochi - un esempio limite è la scena dell’eroe in precario equilibrio sul veicolo trasporto prigionieri in volo. Nondimeno, “Terminator Salvation” allarga l’orizzonte del racconto a qualcosa di più del gusto fracassone di Jonathan Mostow. Il racconto avventuroso si pone come allegoria. Vedi quando John Connor, in scontro aperto col generale della Resistenza (Michael Ironside, che in fondo qui riprende il suo ruolo di “Visitors”), blocca l’attacco alla base Skynet perché vi perirebbero anche i prigionieri umani; il concetto espresso nel suo discorso è che le macchine, inumane, conducono una guerra inumana ma noi umani dobbiamo comportarci in modo umano - altrimenti diventiamo macchine. In forma di favola fantascientifica, questo allude al dilemma etico dell’America in guerra contro l’islamo-fascismo: a che punto della lotta contro l’inumanità si rischia di diventare inumani?
Una feconda duplicità attraversa il film, incarnandosi innanzitutto nello sdoppiamento dell’eroe fra il combattente John Connor (Christian Bale), destinato alla vittoria, e l’outcast Marcus (Sam Worthington), destinato all’auto-sacrificio proprio come i Terminator “buoni” incarnati da Schwarzenegger nel secondo e terzo film. Come personaggio Marcus rappresenta la perfetta inversione di quello di Schwarzenegger: in ambo i casi abbiamo un corpo di metallo sotto la pelle, un teschio di metallo che emerge dalla faccia distrutta: ma nel primo caso era la macchina che emergeva sotto il (falso) uomo, mentre qui è l’uomo che comprende in sé la macchina. Il dettaglio vincente è che lui stesso non sa di essere un cyborg; mentre nei film precedenti l’ambiguità si limitava al riconoscimento del Terminator sotto la maschera umana e al suo schieramento “morale”, qui è l’uomo stesso che con orrore si scopre il corpo del Terminator sotto la pelle, proprio come Lon Chaney jr. si scopriva lupo mannaro.
Come non bastasse, questa creatura di confine, incrocio di carne e metallo, deve far fronte a una seconda rivelazione, il piano di Skynet che lo riguarda. E qui Marcus si strappa sanguinosamente dal cranio i microchip (“Ora mi sento meglio”). E’ il trasferimento entro il corpo fisico di quella libertà di scelta che viene adombrata in tutta la saga: con espressione un po’ troppo pomposa, si potrebbe dire che al fondo della serie Terminator giace la questione del libero arbitrio.

(Il Nuovo FVG)

mercoledì 3 giugno 2009

Lupin III - Il castello di Cagliostro

Miyazaki Hayao

Non fosse altro che per vedere su grande schermo il mitico Lupin III, con la sua famosa 500 gialla targata R-33, val la pena di comprare il biglietto per "Lupin III - Il castello di Cagliostro" nella nuova versione restaurata e ridoppiata.
Questo lungometraggio a cartoni animati del 1979 fu il secondo film ad affiancare la serie tv "Lupin III" ("Rupan Sansei"), il delizioso "anime" - ovvero cartoon giapponese - tratto dal manga di Mokey Punch (Kato Kazuhito), che per inciso è assai diverso, e ancora più bello.
Quest'anno cade il quarantennale della prima apparizione di Lupin; ma si capisce che la ragione principale che ha ispirato la riedizione di questo lungometraggio è il fatto che esso è diretto da Miyazaki Hayao, il maestro dei maestri dell'animazione giapponese. Nel 1979 Miyazaki averva già lavorato ad alcuni episodi tv di Lupin, e "Il castello di Cagliostro" ("Kariosutoro no Shiro") rappresentò il suo esordio come regista.
Il film è un piccolo capolavoro, che concretizza splendidamente gli elementi di avventura, umorismo e leggero romanticismo della setrue. Sono da citare pagine come la memorabile sequenza del "car chasing" fra la 500 truccata di Lupin, la Citroen della principessa Clarisse e l'auto dei sicari pistoleros e bpombaroli. O la parodia dei diplomatici internazionali, che pongono il veto all'intervento dell'Interpol per motivi di bassa politica, spezzando il cuore al povvero ispettore Zenigata. O la fantasia macabra del sotterraneo pieno di antichi cadaveri (sublime, più tardi, l'apparizione di Lupin, Jigen e Goemon come finti fantasmi!). O la bella Fujiko che mentre fa la telecronaca spara a un rompiscatole!
Naturalmente la domanda che si pone è: quanto c'è di Miyazaki come "auteur"? Anche a parte il fatto che Miyazaki era agli inizi, va da sé che in un film del genere qualsiasi spinta autoriale è obbligata a rientrare nella logica seriale per stile narrativo e per concezione dei personaggi e delle atmosfere. Ebbene, nonostante la sua natura seriale, "Il castello di Cagliostro" contiene già evidentissima l'impronta di Miyazaki (anche sceneggiatore, con Yamazaki Tadashi).
La avverti già all'inizio, nel paesaggio campestre dove corre tranquilla la 500 prima dell'inseguimento, ed esplode nella meravigliosa inquadratura dell'ombra delle nuvole che corre sui campi; e questo è proprio Miyazaki: la bellezza potente e leggermente malinconica del mondo, la capacità di rendere i momenti atmosferici attraverso una sorta (molto giapponese) di "sospensione", come se fossero stati d'animo della Natura stessa.
Vero che le ambientazioni europee sono frequenti in una serie vagabonda e cosmopolita come "Lupin III", ma l'impronta "mizayakiana" si vede altresì anche nella concezione architettonica. Non dobbiamo dimenticare come una città dall'architettura europea, di stile sette-ottocentesco, dall'architettura nordica ma trapiantata in un clima mediterraneo, col cielo azzurro e la calda presenza del mare, sia una specie di "ambiente sognato" che giace costante nel cuore di Miyazaki (trionfando in quello che si può considerare uno dei suoi capolavori assoluti: "Kiki's Delivery Service").
Ora, la piccola città dello Stato di Cagliostro anticipa - in embrione - questo strano sogno europeo sognato da un giapponese. Per di più, è verso la classica città di Miyazaki, coi suoi tetti a punta e il suo porto assolato, che vediamo sfrecciare tutti i nostri eroi nel classico inseguimento che conclude il film.
L'immenso castello di Cagliostro non è che il primo di molti deliranti edifici, ora inaccessibili ora sbilenchi, di cui Miyazaki ha riempito il suo cinema; nelle due grandi sequenze dell'arrampicata di Lupin e della sua lotta con il Conte Cagliostro già scintilla la grandiosità di concezione grafica dell'autore.
E nel climax del film - il colossale muro d'acqua che si alza dopo la caduta della torre, la rivelazione della città romana sommersa - possiamo vedere una prima rivelazione del gigantismo romantico di Miyazaki.

(Il Nuovo FVG)