lunedì 15 giugno 2009

Terminator Salvation

McG

“Io e te siamo in guerra fin da quando non esistevamo”. Con il quarto episodio della saga, “Terminator Salvation” di McG (Joseph McGinty Nichol), continua l’eterna guerra fra gli umani della Resistenza guidata da John Connor e le macchine di Skynet: una doppia guerra, che si combatte tatticamente sul terreno e strategicamente nel tempo. Nel presente film, invece che modificare il passato per eliminare Sarah Connor e pertanto suo figlio John, Skynet preferisce cercare di uccidere nel tempo presente sia John sia il suo futuro padre Kyle Reese (chi si sente smarrito in quest’intrico temporale ha ragione, ma non ha che da guardarsi in dvd i film precedenti).
Ambientato nel 2018, il film ci apre allo sguardo il nero futuro in cui gli ultimi umani combattono contro le macchine omicide (deliziosa l’apparizione finale in un cameo digitale di Arnold Schwarzenegger nudo nel suo ruolo tradizionale di un Terminator modello 800). Questo mondo devastato, semideserto, punteggiato da scheletri di edifici e resti di macchinari (uno dei tanti mondi “postatomici” del cinema derivati dalla sorgente visionaria di “Mad Max”) è ben delineato, con un notevole lavoro scenografico, anche se a James Cameron nel primo “Terminator” bastavano pochi accenni per una visione più toccante e inquietante (ricordate i bambini davanti a un televisore che non è un televisore?). I due poli spaziali del film - le tane segrete e diroccate degli uomini versus la tecno-città delle macchine - rappresentano concretamente la polarità che attraversa tutta la serie anche sul piano morale.
“Terminator Salvation” è naturalmente inferiore ai due capolavori di James Cameron, ma in compenso è un gradino sopra al (divertente ma modesto) terzo episodio di Jonathan Mostow. Ben servito dall’abile montaggio del regular cameroniano Conrad Buff, è un piacevolissimo film d’azione pervaso di quell’oltranzismo che caratterizza l’action contemporaneo, un eccesso narrativo affine ai videogiochi - un esempio limite è la scena dell’eroe in precario equilibrio sul veicolo trasporto prigionieri in volo. Nondimeno, “Terminator Salvation” allarga l’orizzonte del racconto a qualcosa di più del gusto fracassone di Jonathan Mostow. Il racconto avventuroso si pone come allegoria. Vedi quando John Connor, in scontro aperto col generale della Resistenza (Michael Ironside, che in fondo qui riprende il suo ruolo di “Visitors”), blocca l’attacco alla base Skynet perché vi perirebbero anche i prigionieri umani; il concetto espresso nel suo discorso è che le macchine, inumane, conducono una guerra inumana ma noi umani dobbiamo comportarci in modo umano - altrimenti diventiamo macchine. In forma di favola fantascientifica, questo allude al dilemma etico dell’America in guerra contro l’islamo-fascismo: a che punto della lotta contro l’inumanità si rischia di diventare inumani?
Una feconda duplicità attraversa il film, incarnandosi innanzitutto nello sdoppiamento dell’eroe fra il combattente John Connor (Christian Bale), destinato alla vittoria, e l’outcast Marcus (Sam Worthington), destinato all’auto-sacrificio proprio come i Terminator “buoni” incarnati da Schwarzenegger nel secondo e terzo film. Come personaggio Marcus rappresenta la perfetta inversione di quello di Schwarzenegger: in ambo i casi abbiamo un corpo di metallo sotto la pelle, un teschio di metallo che emerge dalla faccia distrutta: ma nel primo caso era la macchina che emergeva sotto il (falso) uomo, mentre qui è l’uomo che comprende in sé la macchina. Il dettaglio vincente è che lui stesso non sa di essere un cyborg; mentre nei film precedenti l’ambiguità si limitava al riconoscimento del Terminator sotto la maschera umana e al suo schieramento “morale”, qui è l’uomo stesso che con orrore si scopre il corpo del Terminator sotto la pelle, proprio come Lon Chaney jr. si scopriva lupo mannaro.
Come non bastasse, questa creatura di confine, incrocio di carne e metallo, deve far fronte a una seconda rivelazione, il piano di Skynet che lo riguarda. E qui Marcus si strappa sanguinosamente dal cranio i microchip (“Ora mi sento meglio”). E’ il trasferimento entro il corpo fisico di quella libertà di scelta che viene adombrata in tutta la saga: con espressione un po’ troppo pomposa, si potrebbe dire che al fondo della serie Terminator giace la questione del libero arbitrio.

(Il Nuovo FVG)

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