lunedì 18 maggio 2009

Angeli e demoni

Ron Howard

Stupido ma abbastanza divertente, “Angeli e demoni” non pagherà neppure un cent di diritti, però ruba il suo maggior titolo di interesse a un altro film, che gode di un successo di massa da secoli - intendo, il cerimoniale della Chiesa cattolica. Che esso sia grande cinema, non c’è dubbio; basta leggere Huysmans; anche se oggigiorno si è un po’ stemperato e dilavato, cosa resterebbe di “Angeli e demoni” senza la sua sontuosità scenografica e rituale? Togli il Conclave, e il modesto thriller di Ron Howard è niente. Un film ambientato durante il Conclave ha sempre un che di colossale, proprio perché il Conclave stesso è un kolossal. Era questo a sorreggere un altro film altrimenti dimenticabile del 1968, “L’uomo venuto dal Kremlino” (aka “Nei panni di Pietro”) di Michael Anderson.
Per questo il film “Angeli e demoni” inizia col rito dell’Anello piscatorio che viene solennemente spezzato dopo l’improvvisa morte del Papa (assassinato, si scopre più tardi) e con le esequie. Si apre il Conclave - e una secolare società segreta anticattolica, gli Illuminati, rapisce i più probabili successori al soglio pontificio, i quattro cardinali “favoriti” (in realtà non esiste nulla di simile), e annuncia che li ucciderà a distanza di un’ora ciascuno, come propedeutica alla distruzione del Vaticano mediante una bomba a base di antimateria. Evidentemente incapaci di cavare un ragno dal buco, i responsabili vaticani chiamano a Roma Robert Langdon (un Tom Hanks invecchiato e appesantito) in qualità di grande esperto di simbologia, e degli Illuminati in particolare – nonostante le frizioni avute a proposito di Maria Maddalena & Co. ne “Il Codice Da Vinci” (nei romanzi di Dan Brown la presente avventura precede cronologicamente quella del “Codice”, nel film - saggiamente - la segue).
Al disastroso sceneggiatore de “Il Codice Da Vinci” Akiva Goldsman (lo stesso che ha perpetrato il recente “Io sono leggenda”) stavolta la produzione ha affiancato il più capace David Koepp. Risultato, il dialogo è un po’ più accettabile, senza i “Wow!” e i “Davvero incredibile!” che punteggiavano ingenuamente l’altro film. Il problema è che in “Angeli” l’avventura è assai meno articolata che nel “Codice”. Quello era scritto malissimo, spesso involontariamente comico, ma almeno portava i suoi personaggi in frenetici inseguimenti in giro per l’Europa. Questo è scritto leggermente meglio, è anche recitato meglio se vogliamo, ma dà in confronto un’idea di scritto meglio, è anche recitato meglio se vogliamo, ma al confronto dà un’idea di piccolezza, concentrandosi tutto nella dilatazione estrema di un giro-turistico-thriller di Roma, una sorta di caccia al tesoro iconologica fra le chiese romane che ricorda da vicino il nostro famoso sceneggiato tv del 1971 “Il Segno del Comando”. La sceneggiatura del film però stenta a far montare la tensione. E allora cosa fa Ron Howard, regista non privo di senso del ritmo? Rimpolpa l’azione facendo muovere i personaggi velocemente e con grandi corse in macchina - non inseguimenti, beninteso, solo fretta: il classico “facite ammuina”. Con tutti che corrono e zompano e si mostrano i denti come se si fossero fatti di coca, Howard riesce a mascherare il fatto che nel film succede abbastanza poco (fino al “redde rationem” che disegna un bel cielo rosso assai barocco sopra Roma); forse l’unico vero “frisson” lo dà l’occhio strappato al morto per ingannare la cellula fotoelettrica all’inizio.
Ad affondare il film è però qualcos’altro: sono le stupidaggini di cui è costellato. Non parlo delle numerose invenzioni rispetto alle regole ecclesiastiche; parlo della logica del racconto, che definire traballante è dir poco. Questo al cinema non è un problema in sé; ma lo diventa se viene ad incrinare la “voluntary suspension of disbelief”. “Angeli e demoni” è un’autentica collezione di comiche sciocchezze, logiche, psicologiche e quant’altro - né ha le doti narrative per far sì che non ce ne importi nulla.
Facciamo un esempio. Vale ancora la lezione di Aristotele: le azioni dei personaggi devono seguire una loro interna logica - più stringente di quella della vita reale. Come spettatori, possiamo accettare che il camerlengo (che qui non è un cardinale, come nella realtà, ma una specie di giovane parroco, guardato dall’alto in basso dai big della Chiesa) irrompa nel conclave contro le regole; quel che rende l’azione incredibile è che ne approfitti per fare ai cardinali un alato discorso. Un esempio ancora peggiore: Langdon e la co-protagonista Vittoria consultano negli archivi del Vaticano l’unica copia sopravvissuta di un libro proibito di Galileo Galilei e siccome hanno fretta, invece di copiare una frase, la stronza strappa via la pagina, come succede nei gialli con l’elenco telefonico nei bar di New York. Questo non si fa: non perché sia un reato di lesa bibliografia ma perché non è plausibile, è una forzatura sciocca e inutile, non risponde al senso della realtà. Per inciso, non è nemmeno concepibile che Lamgdon, esperto di simbologia di livello mondiale, abbia difficoltà a leggere il latino. Infine, un vero miracolo: il libro di Galileo è in latino (“Diagramma Veritatis”) quando lo consultano negli archivi ed è cambiato in italiano (“Diagramma della verità”) quando il Vaticano lo regala a Langdon a fine film.
Naturalmente il massimo dell’assurdità è - attenzione, lettore, segue mega-spoiler! – la sorpresa conclusiva. Se uno per farsi eleggere Papa deve seguire un piano che comporta per lui il 95% di probabilità di morte, avrebbe più probabilità dicendo ai cardinali “Tratterrò il respiro finché non mi votate”; per non dire della delusione di scoprire che questa potentissima setta segreta in realtà è una truffa. Aridatece Maria Maddalena!

(Il Nuovo FVG)

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