lunedì 8 settembre 2008

Pranzo di Ferragosto

Gianni Di Gregorio

Si loda troppo poco quel genere di film che potremmo definire “cordiali”, quelli che tengono allegri gli spettatori durante tutto lo svolgimento dall'inizio alla fine (metti, le vecchie commedie Ealing quali “Whisky Galore” o “Passport to Pimlico”, o classici come “Accade una notte” o “Il cielo può attendere”, o ancora la maggior parte dei musical), con un sentimento, per così dire, di sorridente comprensione. E' il caso di “Pranzo di Ferragosto”, scritto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, sceneggiatore di Matteo Garrone (qui produttore).
Gianni vive con la madre novantenne e finanziariamente è ridotto male. Così quando l'amministratore del condominio si offre di cancellargli le spese dovute se in cambio lui si occupa di sua madre per ferragosto (così l'amministratore andrà al mare con l'amante), Gianni non può che accettare. Ma poi le vecchiette che gli vengono affibbiate divengono tre... Ciò potrebbe dare lo spunto per un'acida riflessione sulla condizione degli anziani, gestiti come pacchi, ma essa resta implicita (non per questo meno evidente). Quel che ci dà il film è una delicata commedia sui rapporti che si instaurano fra le quattro vecchiette (la cui civiltà formale “d’antan”, come suona oggi arcaica e perduta!), che diventano amicissime - e i problemi di Gianni in questa coabitazione. Le interpreti sono quattro anziane signore non professioniste, ciascuna di particolarissima verità; ma spicca in particolare la madre di Gianni (Valeria de Franciscis, 93 anni reali), col suo volto memorabile e il suo eloquio forbito: è il suo contributo alla scena iniziale, in cui il figlio le legge Dumas, a instaurare quella condizione di felicità espressiva su cui si modula il film.
Certo, si sente qualche ruvidezza da opera prima. Le anziane interpreti in alcuni momenti non riescono a impedirsi di lanciare uno sguardo in macchina; il montaggio in un paio di casi è un po’ brutale; soprattutto, in una bella scena in cui una delle quattro rievoca incantata la sua vita passata (“perché la vecchiaia ti offre poco, pochino”), giustamente il regista fa partire l'inquadratura da una vecchia stampa per poi spostarla sulla vecchietta che parla a occhi chiusi; il guaio è che sul vetro di quella stampa si riflette una lucetta rossa - la telecamera digitale.
Sull'elemento di commedia – ovvero su questa distanza sorridente dello sguardo – Di Gregorio innesta l’idea geniale di un realismo assoluto dei volti, magnificato attraverso la lente d’ingrandimento che è la macchina da presa. La vecchiaia, le macchie della pelle, le grinze, le mani artritiche, tutto quello che una commedia americana si sforzerebbe di attenuare, è enunciato in modo aperto e diretto. “Si parva licet componere magnis”, il regista prende a prestito lo stesso concetto di Dreyer in “Giovanna d’Arco” (lo sottolineò il giovane Luis Buñuel in un saggio famoso): se è ripreso molto ravvicinato, il volto è un paesaggio, ma un paesaggio dotato di realtà psicologica propria.
Il plot sfugge al romanzesco: intendo, la classica narrazione per cui c’è una situazione di equilibrio, poi una “peripezia” con incidenti e sviluppi, che porta a una nuova situazione di equilibrio. Qui, una volta posto il punto di partenza, non succede praticamente niente. Infatti l’unico incidente che avrebbe potuto portare a una complicazione in senso classico, il fatto che la più ribelle delle ospiti si allontani da casa offesa perché non le riconoscono il monopolio del televisore e Gianni corra a cercarla, ha una risoluzione di tipo esclusivamente psicologico, e rientra subito in questo circolo incantato che è il film.
Un cerchio perfetto, un momento di equilibrio precario, il tempo breve della festa, quella sorta di calma voluttà dell’amicizia propiziata dalla buona cucina (brindisi: “Viva noi!”). Però un cerchio perfetto su cui implicitamente si proietta l’ombra del divenire. Perché in un film sull’età estrema e sulla situazione di un giorno, intuiamo razionalmente che “dopo” le vecchiette torneranno a casa, alla solitudine degli anziani; e “dopo” un giorno moriranno; sono troppo vecchie e i loro volti sono troppo macchiati e grinzosi per potersi adagiare in quella specie di eternità eroica di cui godono i personaggi del cinema una volta finito il film, anche quando hanno i capelli grigi.
Essere riuscito a mettere fra parentesi quest’ombra, ecco la grande bravura di Gianni Di Gregorio. La scommessa su cui si regge il film è di passare per la porta stretta della contraddizione fra la dolcezza quasi atemporale dell’allegria ritrovata e l’immediatezza visiva, segnata dal tempo, dei volti e dei corpi. Così il film riesce a situarsi - lo esprime puntualmente il titolo - nella quieta dimensione di tempo sospeso di un giorno felice d’estate.

(Il Nuovo FVG)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Questo "Pranzo di Ferragosto" che ho visto stasera con un amico in una piccola saletta cinematografica è un filmetto veramente delizioso, semplice, divertente, anche profondo (un piccolo inno all'amicizia).
Proprio le pellicole che piacciono a me!
Giuseppe