mercoledì 24 settembre 2008

Il papà di Giovanna

Pupi Avati

“Il papà di Giovanna” è un film ammirevole per molti motivi, ma vorrei menzionarne uno in particolare: il suo uso della Storia. Perché è così facile al cinema sfruttarla come uno sfondo colorato sul quale si svolge la vicenda “privata” dei personaggi, o al contrario trasformare quest’ultima in simbolo dell’epoca (così caricandola di toni allegorici che rischiano di privarla di densità). Nel commovente film di Pupi Avati la vicenda di Giovanna (Alba Rohrwacher) e dei suoi, il padre Michele (Silvio Orlando), la madre Delia (Francesca Neri), l’amico poliziotto Sergio (Ezio Greggio) che è l’amante di Delia, non è determinata dalla dittatura fascista: Giovanna è pazza, uccide per gelosia una compagna di scuola e viene rinchiusa in manicomio criminale. Tuttavia - come chi guardasse attraverso una massa d’acqua chiara e vedesse il fondo - attraverso la vicenda si disegna un panorama pregnante e autentico della vita italiana dal 1938 al 1946: “Il papà di Giovanna” è il miglior film sull'epoca fascista realizzato dal cinema italiano recente (e richiama alla memoria Luigi Zampa, in particolare penso ad “Anni difficili”, per la capacità di integrare l’emozione intima in uno sguardo storico “radiografico”).
Per parafrasare un vecchio detto, la gente può non si occuparsi della Storia ma la Storia si occupa della gente. Ecco la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti; ed ecco la potente digressione della fucilazione di Greggio da parte dei partigiani. Qui il breve accenno di carrellata sui corpi dei fucilati legati alle sedie, incontro di oggettività cronachistica e asciutta pietà, è una delle cose più belle che Avati ci abbia mai mostrato; lo stesso si può dire della sequenza della fuga di Greggio ferito (non è solo la strada di case diroccate a permetterci di definirla polanskiana) e della sua morte sull’autobus, col folgorante cambio d’inquadratura sul viso parzialmente coperto da un giornale, da dentro il veicolo all’esterno del finestrino.
In un film tutto fatto di buone interpretazioni, a partire naturalmente da Alba Rohrwacher, si resta rapiti da Silvio Orlando ed Ezio Greggio, coppia di attori meravigliosi. Superbo il loro gioco di sguardi, la drammaticità delle espressioni, i minimi gesti. Se per Orlando già si sapeva, Greggio è stata una sorpresa per molti -che erano caduti nella solita trappola del sottovalutare gli attori di commedia. Perché Greggio (come il suo partner Gianfranco D’Angelo, ma in misura anche maggiore) era ottimo attore comico già ai tempi di “Drive In” in tv.
“Il papà di Giovanna” è un film-romanzo. Perché tutto il cinema di Avati, che sul piano narrativo è (legittimamente) molto tradizionale, si riporta idealmente al romanzo classico, con quanto esso comporta in termini di ambiguità dei personaggi. In opposizione alla tradizione di sceneggiatura americana, dove le psicologie devono essere chiare e univoche perché i personaggi incarnano ruoli funzionali, qui i comportamenti mantengono un quid di ambiguità che il regista offre irrisolto alla soggettività conoscitiva dello spettatore. Per tutto il film vediamo gli sguardi segreti che si scambiano Ezio Greggio e Francesca Neri, ma resta a noi di fare delle ipotesi sulla natura più specifica della loro relazione. Vediamo all'inizio il patto implicito tra il professore e il ragazzotto, ma qual è di preciso? Avati non lo definisce, né probabilmente è chiaro per i personaggi stessi.
Il regista emiliano è un maestro della messa in scena, forse il maggiore che possediamo. Utilizza tutto il repertorio antiquario di oggetti, di musiche, di espressioni tipiche, non semplicemente per illustrare bensì per “ricreare”; ha una capacità quasi stregonesca, quasi come il pittore Pickman di Lovecraft, di evocare atmosfere, di trasmettere in modo palpabile l’immediatezza di esperienze e sensazioni. I suoni del manicomio di notte, ascoltati da Orlando dopo averci accompagnato la figlia; il terrore dei bombardamenti, in scene brevissime di nettezza fulminante. Questa sua capacità di una messa in scena “parlante” - di cui fa parte la verità dei volti - è il trait d’union che collega le varie incarnazioni del cinema di Avati, dal drammatico al sentimentale-minimalista all’horror, fino al film d’ambientazione medievale.
Tutta la sua opera ruota su personaggi persi in un progetto più o meno delirante, in un sogno. Silvio Orlando è un Don Chisciotte dell’amore per la figlia (al punto di essere, secondo la moglie, responsabile della sua follia); il suo viso è invecchiato e teso, gli occhi sono febbrili. Figura monomaniaca, si brucia in questo amore folle, che poi però è strumento della risalita dopo che lei è uscita dal manicomio: veridicità umana dell’idea che il padre faccia propria la coprolalia della ragazza per seguirla sul suo terreno e comunicare, sì che costituiscono nei loro dialoghi una coppia tragicamente buffa di semipazzi! Il film comincia con la voce narrante della ragazza, di cui poi ci dimentichiamo: perché inizia un viaggio nel dolore e nella follia tale che questa voce narrante, con quanto implica di coscienza, memoria, ragione, sembri perduta. Ma nella grande conclusione che è puro mélo il riapparire “carsico” della voce narrante chiude un cerchio, ipotizza una rinascita.

4 commenti:

Favilla ha detto...

Mi trovo sostanzialmente d'accordo nell'approvare un film in cui il contesto sociopolitico (benché fosse stata una delle nostre peggiori parentesi storiche), non prenda il sopravvento sulla trama o sui personaggi, bensì da essi filtri, apparendo come in sovrimpressione lungo lo snodarsi della storia, e formando un fluido unicum con essa.
Allo stesso modo, anch'io ho apprezzato le prove interpretative, soprattutto quella di Giovanna/Alba, già bravissima come figlia dei coniugi Albanese/Buy nel film di Soldini.
L'unica cosa a stonare, in questa storia così intensa e delicata, è qualche errore grossolano disseminato qua e là; soprattutto nel già citato momento della morte di Greggio, quando l'inquadratura si pone alle sue spalle, e noi vediamo oltre i finestrini una foresta scura, anziché rovine.

giorgioplac ha detto...

Gulp! Beccato e affondato: non mi ero minimamente accorto dell'errore che citi (evid. ero troppo occupato a piangere sulla morte di Ezio Greggio). In Pupi Avati si trovano errori simili: per esempio in "Noi tre", XVIII secolo, nella scena in cui il giovane Mozart sta conversando nel parco di una villa, se si guarda attentamente si vede passare un'automobile rossa nel quadto della del muro della villa sul fondo. Per quanto riguarda la scena incriminata mi chiedo: è possibile che in quel punto le case della periferia fossero così distrutte da lasciare spazio visivo alla foresta? (naturalmente questo mio tentativo di salvare la realtà logica del film è solo la dimostrazione di come la nostra mente di spettatori tenda sempre a risucchiare l'iconico nel diegetico).

Favilla ha detto...

Mmh, non credo: il bosco era così vicino che sembrava non vi fossero mai state case, in quel punto ;)

PS Un film di Pupi Avati su Mozart o Mozart citato in un film di Pupi avati?

giorgioplac ha detto...

No, no, è un (bel) film sul giovane Mozart e il suo desiderio passeggero di lasciar perdere la musica per vivere una vita tranquilla di amicizia campestre - un sentimento molto avatiano!