venerdì 9 maggio 2008

The Hunting Party

Richard Shepard

“Solo le parti più ridicole di questa storia sono vere”, recita la didascalia all’inizio di “The Hunting Party”. E in apertura del film lo spettatore resta spiazzato dalla discrasia fra questa didascalia da “comedy”, cui si accorda il tono scanzonato della voce narrante, e le immagini che vediamo (guerra e massacri in Africa, in inquadrature tipiche del racconto “serio”). Sembra un’incongruenza: e invece è la cifra dell’interessante film di Richard Shepard, l’incrocio fra l’elemento satirico e quello realistico-drammatico connesso al plot avventuroso d’un film d’azione con tutti i crismi (compresa la fortuna sfacciata dei protagonisti). Il giornalista in declino Simon Hunt (Richard Gere) convince il suo ex cameraman Duck (Terrence Howard) e il giovane inesperto Ben (Jesse Eisenberg) a unirsi a lui nella caccia al criminale di guerra Boghdanovic, nascosto nel cuore della Bosnia serba (in lui il film fonde le figure reali del politicante Karadzic e del generale Mladic; l’ottimo attore croato Ljubomir Kerekes vi dà un’impressionante aderenza al vero). Si tratta, naturalmente, di un racconto di formazione per il giovane e, per gli altri, di recupero di un’identità in diverso modo perduta.
Bisogna chiarire che la didascalia (ripresa nelle sarcastiche note finali) non mente: l’elemento satirico nel film non è tanto una deformazione parodistica della realtà quanto la realtà stessa messa in scena: il paradosso (avrebbe interessato il Decano Swift) per cui USA, NATO e ONU si impegnano a dare la caccia ai criminali di guerra in Bosnia ma fanno nel contempo il possibile per non trovarli. Inefficienza e cattiva volontà si sorreggono a vicenda fino a divenire indistinguibili (vediamo nel finale del film, e potrebbe essere verissimo, che gli USA hanno messo un avviso di taglia di 5 milioni di dollari sul criminale ricercato sui giornali bosniaci, con un numero verde da chiamare – che però è attivo soltanto negli Stati Uniti). Fra una battuta e una scena di suspense il film svela gli altarini delle nazioni occidentali, e l’ONU è giustamente sputtanato più di tutti.
Tutto il film scorre dunque su un doppio registro. Da un lato l’elemento drammatico, connesso al discorso sulle stragi serbe e l’ambiguità occidentale, dall’altro un approccio ironico (battute come “Non sto facendo quello che sto facendo” sono la parodia del “discorso doppio” dei film di spionaggio) e una descrizione salace dei giornalisti. Nel cui dialogo la centralità ossessiva del concetto di “palle” (averle, non averle, tirarle fuori, farle vedere) concretizza la satira d’una figura centrale nella cultura americana del Novecento: il corrispondente di guerra eroico/fanfarone alla Hemingway. Il tutto richiama vagamente alla memoria un vecchio delirante film di Clark Gable, “L’amico pubblico n. 1”, di Jack Conway.
Naturalmente l’equilibrio fra queste diverse istanze (potremmo dire: fra action su uno spunto engagé e commedia nera) lungo il film è piuttosto precario; anche perché non è che “The Hunting Party” sia uno di quegli esempi di narrazione cinematografica superiore che sono capaci di produrre uno Spielberg o, ancor di più, un Friedkin (cfr. il suo film che prende le mosse dai massacri balcanici, “The Hunted”). Ma resta un’operazione dignitosa; che è stata vivacemente criticato per il suo “happy ending” - ma a torto.
Ritorna tre volte nel film una citazione eroica di Chuck Norris (da “Missing in Action”). Dapprima è inserito entro il racconto (è visto in tv), ma l’ultima volta se ne svincola e si squaderna solenne a schermo intero: non più tv ma nume protettore, simbolo (pur sempre venato d’ironia) dell’eroismo e del volontaristico lieto fine hollywoodiano. Se c’è un Hitler o uno Stalin o un Karadzic/Mladic che impazza, può sempre esserci qualcuno di buona volontà (magari tre giornalisti alquanto sfigati) che va e lo sconfigge. A differenza degli stanchi e svirilizzati europei, il cinema americano (come quello asiatico) non si è ancora convinto dell’ineluttabilità del male.

(Il Nuovo FVG)

Nessun commento: