mercoledì 30 aprile 2008

Far East Film 2008 - I film, II

Trionfo del Giappone, un en plein senza precedenti, al Far East Film 2008: l’Audience Award è andata a tre film giapponesi, col primo premio a “Gachi Boy – Wrestling with a Memory” di Koizumi Norihiro, seguito nell’ordine da “Adrift in Tokyo” di Miki Satoshi e “Fine, Totally Fine” di Fujita Yosuke. Come se non bastasse, quest’anno si inaugurava il Black Dragon Award, che essendo conferito da chi ha versato una donazione al festival è sicuramente espressione di veri appassionati del cinema orientale; pure in questa graduatoria il secondo e il terzo arrivato erano giapponesi, mentre il vincitore è stato “Mad Detective” di Johnnie To e Wai Ka-fai (alla premiazione, il suo eccezionale interprete Lau Ching-wan indicando To e Wai ha detto: “I’m not mad - they are”). Bisogna sempre diffidare della votazioni, ma in questo doppio trionfo, proveniente da categorie così diverse, credo si possa vedere una conferma di quanto scrivevo giorni fa nel servizio di presentazione del festival: il cinema giapponese è oggi il migliore del panorama asiatico. E il fatto che l’hongkonghese “Mad Detective” sia riuscito a forzare il blocco nipponico non stupisce: a mio parere, è il film più geniale che sia stato proiettato nell’intero festival.
Siccome non avevo ancora parlato di Miki Satoshi, dopo il suo premio viene giusto in taglio questo regista giapponese, autore di commedie cinematografiche dalla comicità vagamente delirante. Il suo cinema ha un amabile andamento episodico e “dégagé” che si esprime volentieri nella forma del viaggio (“Deathfix”, “Adrift in Tokyo”) o della collezione di incontri, come “In the Pool”, storia dei pazzi clienti di un ancor più pazzo psicologo: come le altre commedie di Miki, in primo luogo una collezione di tipi. Attenzione però: non è mai puro meccanismo. Lo vediamo bene in “Deathfix”, il più demenziale dei film demenziali giapponesi, che non si esaurisce nella risata (non che questa non sia un merito) ma raggiunge esiti particolarmente grotteschi e “creepy”, come nella sequenza dello spettacolo nel tendone. Per non dire dell’improvvisa, inaspettata, ingiustificata irruzione citazionistica di “Apocalypse Now”… Il recente “Adrift in Tokyo”, infine, è forse meno fulminante degli altri due (ciò non gli ha impedito di diventare il più grande successo di Miki in Giappone), ma psicologicamente ben fondato con la sua galleria di buffe occorrenze dal fondo molto umano.
La seconda scoperta del Far East Film 2008 è il malaysiano Mamat Khalid. Le sue due parodie horror sono deliziose. In “Kala Malam Bulan Mangambang”, girato in b/n per fare il verso alla tradizione noir (anche con angolazioni iper-espressive e quant’altro), l’astrazione comica raggiunge nei momenti migliori punte di autentico delirio. La sua galleria di personaggi pazzeschi fa pensare un po’ al Mel Brooks di “Frankenstein Junior” e un po’ al Polanski di “Per favore non mordermi sul collo”, però virato sul demenziale; e il suo protagonista, giornalista-investigatore, con la sua aria avventurosa e gaglioffa non può non richiamare alla memoria lo Steve Martin de “Il mistero del cadavere scomparso”. Ma questi riferimenti occidentali non devono mettere in ombra il fatto che Mamat Khalid è molto inserito nella cultura malaysiana. “Zombi Kampung Pisang”, una farsa divertentissima, è costellato di riferimenti alla cultura locale, ed è un vero peccato non poterli cogliere – ma resta il divertimento di fondo a rendere rimarchevole il film, che unisce una fresca sicurezza d’invenzione e una vis comica abilmente “naïve” a una vera perizia nell’uso di ritmi e tempi. Mamat Khalid diventerà sicuramente uno degli “autori-da-seguire” del Far East Film.
Ma ora andiamo a vedere un po’ di film che sono passati nella seconda parte del Festival sugli schermi del Teatro Nuovo di Udine (a parte l’Horror Day, cui ho già accennato in un precedente servizio).
“Funuke, Show Some Love You Losers!” di Yoshida Daihachi. Questa commedia nera giapponese è una ammirevole variazione sul tema della famiglia disfunzionale. Di crudeltà psicologica quasi intollerabile (apprezzabile lo sguardo freddo del regista, che non cede mai al sentimento e così ne lascia la responsabilità allo spettatore), inanella una serie memorabile di personaggi-vignetta – nel senso che la dimensione del manga è un ironico commento laterale al racconto, dal linguaggio estremamente libero e vivace.
“The Detective” (Hong Kong) di Oxide Pang, sempre in collaborazione col fratello gemello Danny, qui in vacanza (beh!... quasi) dalle consuete atmosfere spettrali. Storia della ricerca di una donna da parte di uno scalcinato investigatore privato, quasi rappresenta una trasposizione di echi chandleriani, ma si allarga a una dimensione narrativa interamente orientale – fino a sfumare nel fantastico.
“The Wonder Years”, coreano, di Kim Hee-jung. Nella sua costruzione ellittica, e persino un po’ involuta nella prima parte, riesce a dare un quadro sincero e perfettamente credibile del turbamento adolescenziale. Non si può non menzionare l’ottima interpretazione di Choo Sang-mi e Lee Se-young (rispettivamente la madre e la figlia).
“Resiklo”, filippino, di Mark A. Reyes. Di solito si dice “So bad it's good”, ma questo film è talmente bad che se il modo di dire fosse valido dovrebbe essere extremely good - e non lo è per niente. Ci sono cose molto divertenti, come i plagi ultraspudorati da “Star Wars”, da “Aliens”, dai cartoon giapponesi di mega-robot; buona computer graphics; una scena di battaglia finale (appena accennata) non malaccio sotto il profilo visuale. Ma ci sono anche i bellocci filippini che dicono battute sceme in inglese, un protagonista “dull” fino all'impossibile, una sceneggiatura che sembra inventata sul set mattina per mattina, e così via.
“The Glorious Team Batista” di Nakamura Yoshihiro (Giappone) è un tradizionale giallo (Agatha Christie, l’hanno detto tutti) in ambiente ospedaliero - con in più il brivido visuale delle operazioni a cuore aperto. Non il tipo di film cui uno ripensa per anni, ma gradevole, con una protagonista (Takewuchi Yuko) simpaticissima.
“Our Town”, coreano, di Jung Kil-young. Basta l’inizio con la splendida scena del ritrovamento del cadavere femminile crocifisso – con quell’uso perfetto dello spazio e di brevi movimenti di macchina non per narrare ma per evidenziare sul piano emotivo – per capire di essere davanti a un thriller molto autorevole. La storia è (“more coreano”) molto complicata, ma alla fine i tasselli vanno a posto, e un film iniziato con eleganti movimenti di macchina nello spazio si trasforma in un’infernale esplorazione dell’inconscio.
Lasciamo pure perdere l’inconsistente e kitsch “Magic Boy” (hongkonghese) di Adam Wong.
“Your Friends” (Giappone) di Kiroki Ryuichi, storia di un’amicizia femminile, è magistrale nel suo raffinato intarsio di “racconto primo” e di vari flashback in età progressiva; la sua fotografia sobria e rigorosa, sempre giocata sulla dimensione del campo medio-lungo, dà a questi sentimenti raccontati con pudore un’austera intensità che ha qualcosa quasi di bressoniano, ma piena di tenerezza.
“The Other Half” di Lin Lisheng è il film migliore arrivato dalla Cina continentale. La sua cifra è la rinuncia a una costruzione di tipo drammatico in favore di una costruzione a piccoli tocchi - un’accumulazione a spirale della nostra conoscenza dei personaggi e di conseguenza dell’empatia connessa. Le tre figure femminili protagoniste sono splendidamente delineate e possiedono un elemento di autenticità che sembra farle sprizzare fuori dallo schermo, anche grazie a tre eccellenti interpretazioni.
“Lucky Dog” di Zhang Meng, pure dalla Cina continentale, un film impressionistico fino ai confini dell’irrisolto, ma che alla conclusione ha consegnato allo spettatore un interessantissimo quadro di vita, non privo di dettagli inediti.
“The Rebel” di Charlie Nguyen ha rappresentato il Vietnam al festival. Un film totalmente e perfettamente hollywoodiano – come stile, come personaggi, come drammaturgia – e non dei migliori.
“Fine, Totally Fine” di Fujita Yosuke (Giappone). Una narrazione a mosaico, composta di piccole scene fresche e originali, su un gruppo di personaggi ciascuno a suo modo flippato (il concetto è di sottolineare l’aspetto ossessivo e grottesco di ogni creatura), e ne emerge un mazzo di personaggi che formano un film assai interessante. Il regista ha un vero occhio per le cose concrete, un senso vivace del bizzarro e un umorismo alquanto perverso.
“Ta Pu” di Wang Wei (Cina), su un gruppo di studenti-contadini che devono sostenere l’esame di ammissione all’università, è molto dialogato ma non profondo e commovente come vorrebbe essere. La regia severa di Wang Wei (mota mdp fissa, molte inquadrature “casuali” in campo lungo, molto uso del buio come sfondo) non riesce a dare solennità all’insieme.
“An Empress and the Warriors” (Hong Kong), firmato dal grande Tony Ching Siu-tung, coreografo di arti marziali nonché celebrato regista di “Storia di fantasmi cinesi”, è un piccolo “wuxiapian” piacevole. Ci si può dividere fra chi apprezza le scene di guerra e chi il côté sentimentale (chi scrive è tutto per la prima opzione).
Ed eccoci al film vincitore dell’Audience Award, “Gachi Boy – Wrestling with a Memory” di Koizumi Norihiro. Senza essere il più bello in gara nella selezione giapponese (lo superano “Funuke”, “Peeping Tom”, “Fine, Totally Fine”, “Your Friends”), è molto grazioso, con uno svolgimento spiritoso (che poi dà luogo allo sviluppo drammatico quando viene rivelato il segreto del protagonista) e un atteggiamento di fondo cordiale e umano. Ottimo il protagonista Sato Ryuta.
“Run Papa Run” di Sylvia Chang (Hong Kong). Un film indeciso: non per il fatto di partire come una commedia e di trasformarsi in dramma sentimentale ma per il cambio radicale di linguaggio che accompagna questa trasformazione (col protagonista che prima parla allegramente in macchina e poi no).
“Mad Detective”, di Johnnie To e Wai Ka-fai, è come dicevo il film più geniale del concorso. Parla di un detective pazzo (Lau Ching-wan) che è in grado di vedere la “inner personality” delle persone - per esempio, un poliziotto sospetto di omicidio ne ha ben sette, incarnate da una donna e 6 uomini (uno dei quali è Lam Suet!) che si spostano in gruppo, ciascuno facendo lo stesso gesto degli altri. Per di più, il protagonista ha una sorta di moglie fantasma che gli altri personaggi logicamente non vedono. Il rimbalzare (superbamente intessuto) fra la visione oggettiva del racconto e la visione soggettiva di Lau Ching-wan sposta letteralmente in avanti i confini, modifica le convenzioni del racconto cinematografico. Né è fine a se stesso, ma si inserisce con superba naturalezza nel plot poliziesco e sentimentale, che culmina in una grande sequenza finale di sparatoria in una stanza degli specchi che rende omaggio al Welles di “Lady from Shanghai”.
Stanco per la visione notturna di “Mad Detective”, il pubblico ha affrontato l’ultima giornata del festival – e la sua perseveranza è stata premiata, perché nella mattinata di sabato 26 è stato proiettato uno dei film migliori della settimana, il giapponese “Peeping Tom” di Fukagawa Yoshihiro. Un film fantastico (la cui natura in questo senso si rivela lentamente, ma è abilmente suggerita da alcune stranezze fin dall’inizio) che ricorda le opere di Edogawa Rampo; il suo tema spettrale non è declinato in termini paurosi ma, piuttosto, metafisici. E’ anche molto erotico – non nel senso che sia visivamente osé ma che sa caricare di erotismo i dettagli del corpo frazionato e rubato dallo sguardo che spia; oltre al fatto, naturalmente, che la stessa categoria del voyeurismo spiando attraverso il buco nel muro è di per sé portatrice di senso erotico (superba la serie di sguardi in macchina della bella vicina in un momento di rivelazione verso la fine).
Mentre per “Gone Shopping” (Singapore), di Wee Li Lin, modesta e noiosa commedia drammatica a fondo morale, basta annotare “pfui”.
“Tactical Unit – The Code”, hongkonghese, di Law Wing-cheong, presentato in prima mondiale (non vorrei sbagliarmi, ma credo non sia stato ancora neppure trasmesso alla tv di Hong Kong), è uno spin-off televisivo del capolavoro di Johnnie To “PTU”. Primo di una serie di film tv con i personaggi di quel film, benché un po’ lento a mettersi in moto, rappresenta comunque un eccellente prodotto tv, che ci permette di sospirare: magari avessimo da noi della televisione simile! (e se è per questo - visto come trattano i criminali - amplio la portata del sospiro: magari avessimo da noi la polizia di Hong Kong!).
Sabato il festival ha chiuso in grande con “Sparrow” di Johnnie To. Si tratta di un meraviglioso piccolo film, di una leggerezza che fa pensare a Jacques Demy, in cui quattro borseggiatori sono coinvolti in una complicata vicenda (negli anni ‘60 si sarebbe detta giallo-rosa) che si svolge a ritmo di musica. La sequenza con gli ombrelli sotto la pioggia – una gara di borseggio fra due parti contrapposte - è un autentico balletto, e sono forse i cinque minuti più belli che il Far East Film abbia proiettato nella sua storia.
La sua posizione di ultimo film del festival, alle 22 dopo “Sparrow”, ha indubbiamente penalizzato il difficile “Shadow in the Palace”, thriller storico coreano di Kim Mee-jeung. Non privo di difetti, è comunque un film interessante e dotato di un suo crudele fascino, dalla grande bellezza coreografica che non si oppone alla cupezza del racconto ma anzi la sottolinea. Proiettarlo in quel contesto - anziché, diciamo, in una mattinata - è stato mandarlo allo sbaraglio. Ma questo è un neo minimo. Il Far East Film del decennale ha offerto una selezione eccellente, ed è con piena fiducia che può guardare alla sua seconda decade di vita.

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