martedì 8 gennaio 2008

The Hunted - La preda

William Friedkin

Dall’inferno è venuto il serial killer, in “The Hunted - La preda” di William Friedkin, l’ultimo film che ci arriva da uno dei più grandi, e ancora misconosciuti, registi americani. Però il classico, lucido, spietato Friedkin non vuole darci il brivido “cheap” di un tour guidato dentro il cervello bacato di uno psicopatico. Il suo inferno è storicamente situato, manifestazione tardo-novecentesca del congenito male umano.
Il film si apre sul massacro notturno di un villaggio albanese nel Kosovo per opera di serbi. E’ rilevante che il preludio a un film classicamente contenuto siano gli effetti speciali, le gigantesche vampate di fuoco, prodotte dalla Light and Magic di George Lucas: l’inferno, appunto. Dove il soldato americano superaddestrato Aaron Allam (Benicio Del Toro) s’infiltra e sgozza il comandante serbo - e lo accompagnano l’adesione e la trepida benedizione dello spettatore.
Troviamo qui l’altissima moralità del cinema americano, per cui, in due parole, “le carogne devono morire”; e il discorso di Friedkin sull’ineluttabilità della guerra come tragedia dell’essere umano che aveva già dato base al suo importante film “Rules of Engagement”; e il tema dell’insostenibilità della guerra e della visione della guerra (sebbene Friedkin non sia un regista citazionista, un’inquadratura della sequenza di apertura richiama visibilmente “Apocalypse Now”). Ma soprattutto, qui Friedkin ci offre uno dei suoi inquietanti rovesciamenti: anni dopo, l’uomo che ha addestrato Aaron a uccidere - L.T. (Tommy Lee Jones) - viene richiamato da un volontario esilio per fermarlo; questa “macchina di morte” ha perso il controllo con la realtà ed è diventato un serial killer paranoico.
Ora, il tipo di guerra cui Aaron è stato addestrato si è allontanata dalla dimensione tecnologica e di massa; ha assunto le forme vagamente preistoriche della caccia. E proprio la caccia diventa il tema lungo il quale si articola splendidamente il film. Friedkin è un maestro dell’inseguimento urbano (“Il braccio violento della legge”) e del “car chasing” (“Vivere e morire a Los Angeles”), ma questa caccia si estende dalla città alla natura, vuoi selvaggia, vuoi l’ambigua natura di confine. Ed è richiamata ossessivamente anche nell’implicito. Vedi la scena di L.T. all’aeroporto che osserva i bambini che giocano a mosca cieca, chiara anticipazione del gioco che lui stesso dovrà giocare; o l’episodio poetico, angoscioso e bellissimo in cui il pazzo insegna nel buio alla bambina della sua ex amante a riconoscere le tracce degli animali.
In un certo senso potremmo vedere il film come una versione rovesciata di “Rambo” (lo mostra la conclusione, con entrambi i personaggi che devono fabbricarsi le loro armi di fortuna), con l’“outcast” visto non come vittima e vendicatore ma come minaccia. Però la caccia che vediamo nel film non mette in gioco solo due esperti - l’uno teorico, l’altro pratico - di uccisioni. E’ fra due simili (Friedkin è sempre stato affascinato dal gioco del doppio), ed evidentemente fra un padre putativo e il suo figlio perduto (“il mio ragazzo”, dice di Aaron in una scena). Ecco qui materializzarsi il tema biblico sotteso al film, dichiarato già dall’ironica citazione iniziale: quello del sacrificio di Abramo. Come un nuovo Abramo - ancora il tema friedkiniano dello scambio - L.T. deve replicare l’antico sacrificio.
Regista moderno di alto livello stilistico, nondimeno Friedkin è caratterizzato da un’autorevolezza dell’immagine - non trovo altro termine più adatto - che lo rapporta direttamente agli autori classici. Friedkin filma con una quieta limpidezza “matter of fact” che Ford o Hawks avrebbero capito. E questa si nutre di una caratteristica di tutto il cinema friedkiniano: una tragica bellezza, che non è decorativa ma restituisce la sconvolgente grandezza del vedere. E di film in film è stupefacente come Friedkin sappia attingere ai grandi sentimenti (il dolore qui, e poi la pace) passando attraverso tale bellezza, che è, nel suo cinema, sostanziale.

(Il Nuovo FVG)

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